La Lettura, 28 aprile 2019
La ’Ndrangheta investe in bar e ristoranti
Il bar di corso Europa ha un nome familiare, «Vecchia Milano». Le guglie del Duomo distano una manciata di passi, e alle spalle s’intravede la sagoma austera del Palazzo di Giustizia di corso di Porta Vittoria. In una mafia che vive di riti arcaici e contraffatti, dove si mischiano i padri della patria Mazzini e Garibaldi, con il conte Ugolino e i santi della Chiesa cattolica, certi simbolismi non possono essere bollati come semplici giochi del caso.
La storia del bar tabacchi «Vecchia Milano» racconta di una mafia arrivata nel cuore della capitale economica del Paese, di una famiglia di ’ndrangheta tra le più antiche e potenti che ha il suo nido (e il suo cervello) sulle pendici d’Aspromonte, ma cuori che pulsano in ogni parte del mondo. Dalla Germania alla Spagna, fino all’Australia. Era l’inverno di sei anni fa quando Rocco Barbaro da Platì (Reggio Calabria), oggi 53enne, che da poco aveva finito di scontare una condanna a 15 anni per narcotraffico, veniva ripreso dalle telecamere dei carabinieri di Milano mentre, avvolto in un giacchino di renna marrone, stava sulla soglia del locale di corso Europa insieme a quelli che, da lì a pochi giorni, gli avrebbero ceduto le quote del bar dopo un girotondo di società e prestanome. A fare da tramite vecchi e nuovi personaggi della ’ndrangheta e soprattutto il figlio Francesco, 29 anni, che insieme al cugino Antonio prenderà la gestione del locale.
Rocco e Francesco Barbaro da anni vivevano a Buccinasco, comune di quasi 30 mila abitanti ricco di verde e di palazzine residenziali, diventato da almeno quarant’anni il feudo del clan più potente al Nord, la cosca Barbaro-Papalia. Francesco porta il nome del nonno, Ciccio ’u Castanu, morto a 91 anni lo scorso novembre nel carcere di Parma, ultimo discendente del capostipite Francesco Barbaro, classe 1873. Un clan, quello dei «Barbaro Castani», che ha attraversato la storia della vecchia e nuova mafia calabrese, passando dai furti di capre ai sequestri di persona, fino al controllo mondiale del narcotraffico e, da ultimo, al reinvestimento delle immense ricchezze della ’ndrangheta nell’economia «pulita». Per la vicenda «Vecchia Milano», Rocco Barbaro – che fino al momento della sua cattura nel 2017 era, secondo l’antimafia, al vertice delle cosche lombarde – è stato condannato a 16 anni, il figlio Francesco a 8 anni.
La ’ndrangheta, soprattutto al Nord, ha in questo ultimo decennio scelto la strategia dell’inabissamento: confondersi nel mondo economico e istituzionale cercando di mostrare la faccia più pulita. Lasciando da parte, almeno fin quando non strettamente necessario, il volto violento e sanguinario. La ’ndrangheta è riconosciuta nel mondo criminale – dal narcotraffico al recupero crediti, fino al procacciamento di voti – come un soggetto di elevata affidabilità. Un’azienda in grado di rispettare la parola data, di sostituirsi (come nelle questioni civilistiche) allo Stato garantendo tempi di intervento rapidi e se necessario modi «muscolari». E, scorrendo le ultime indagini sulle cosche in terra lombarda, piemontese e ligure, sono stati spesso gli «insospettabili» (imprenditori, professionisti, politici) a rivolgersi alle cosche per una sorta di problem solving illegale. Ovviamente sempre a vantaggio dei clan, come hanno dimostrato le indagini sul caso «Perego Holding» o sul call center «Blue call» dove gli imprenditori si sono poi ritrovati spogliati delle proprie aziende.
La Lombardia è la quinta regione per il numero di aziende confiscate (236, secondo i dati dall’Agenzia nazionale dei beni confiscati). I «soldi» si fanno fuori dal territorio d’origine, in particolare per un’organizzazione come la ’ndrangheta che ha nel narcotraffico il core business con l’80 per cento delle entrate stimate. E in questo senso Milano è il più grande mercato d’Italia. Ma quello che la storia del bar di corso Europa racconta è anche altro: una progressiva differenziazione del business del riciclaggio che in una prima fase aveva riguardato l’edilizia, a partire dal settore a più bassa specializzazione come il movimento terra. Oggi la ristorazione e l’intrattenimento notturno rappresentano una frontiera sempre più importante.
La gestione delle aziende confiscate però non è facile. Anzi, quasi la totalità delle imprese sottratte ai clan finiscono per essere chiuse. Con la ristorazione il problema aumenta, come più volte ha spiegato il capo della Dda di Milano Alessandra Dolci. Perché la mafia vive di concorrenza sleale (a cominciare dalla mancata applicazione dei contratti di lavoro) e perché, drammaticamente, a volte il bar funziona proprio perché riconosciuto come vicino a questa o quella famiglia criminale. Succede soprattutto nei quartieri periferici. I bar rappresentano un avamposto sul territorio, un osservatorio e un luogo d’incontro, come ha testimoniato l’inchiesta «Infinito» dove i summit si svolgevano ai tavoli, compresi quelli della trattoria «la Cadrega» di Pioltello.
Per questo, insieme all’azione giudiziaria con sequestro e confisca, a Milano negli ultimi anni si è affiancato un nuovo strumento, non penale ma amministrativo, che porta alla revoca della licenza in caso di «sospetto di condizionamento della criminalità organizzata sull’impresa». In questo modo il Comune e la Prefettura hanno chiuso locali come il ristorante «Unico» all’ultimo piano della torre di via Achille Papa, in Fiera. O come tre bar della centralissima corso Como, compreso il modaiolo «Dom».
In questo caso a pesare sono stati i contatti con la cosca Morabito-Palamara di Africo. L’elenco delle interdittive ha ormai toccato quota 34 negli ultimi tre anni. Tra queste anche la gioielleria della moglie di un boss di Cosa Nostra in via Cavallotti. E locali storici della mafia come il famigerato «Bar Lyons» di Buccinasco, un tempo ufficio degli affari della cosca Papalia. Un’onda pronta a diventare uno tsunami: sul tavolo dell’Antimafia sono pronti altri 50 provvedimenti.