La Lettura, 28 aprile 2019
Il mito della finanza ebraica
A distanza di pochi anni Karl Marx, nella Questione ebraica (1844), e Charles Dickens, in David Copperfield (1849-50), riproposero la perdurante leggenda, diffusa in Europa da metà Seicento, che vedeva gli ebrei inventori delle cambiali, strumenti finanziari considerati diabolici. Alla ricerca delle origini del capitalismo finanziario, si è plasmato questo mito, fondato su un pregiudizio e destinato a diventare allegoria di speranze e paure provocate dall’espansione del commercio globale. Con grande raffinatezza e rigore critico, Francesca Trivellato, docente a Princeton, sulle tracce del passaggio dall’economia monetaria a quella proto-capitalistica, con il suo ultimo libro The promise and Peril of Credit («La promessa e il rischio del credito»), edito da Princeton University Press e di prossima pubblicazione in Italia presso Laterza, ha inseguito il forgiarsi di un’immagine con cui si dava un volto alle paure: da usuraio su cui si abbatteva la condanna nel Medioevo, l’ebreo diventa inventore del credito commerciale. La leggenda rappresenta quindi la reazione alla minaccia costituita dalla nuova economia.
Se non furono gli ebrei a inventare le cambiali, chi fu ad adottarle per primo e quando? Ne sappiamo qualcosa?
«Nessun individuo o gruppo sociale ha, da solo, inventato le cambiali. Come altri strumenti finanziari (per esempio l’assicurazione marittima), esse sono il prodotto della rivoluzione commerciale del Medioevo, il primo periodo di rapida espansione demografica ed economica in Europa dopo la caduta dell’Impero romano. Le città italiane erano allora all’avanguardia, e c’è chi volle attribuire l’ideazione delle cambiali ai fiorentini. In realtà, come autorevoli studiosi hanno dimostrato, esse nacquero dall’esigenza di facilitare i commerci internazionali ed emersero durante un lungo processo di gestazione cominciato nel XIII secolo».
Quando nasce la leggenda?
«Già negli anni Novanta del Trecento, un’ondata di violenza aveva indotto molti ebrei spagnoli a convertirsi al cattolicesimo. Nel 1492, poi, i sovrani di Castiglia e Aragona imposero il battesimo a quanti ancora erano rimasti ebrei praticanti. Per la Chiesa cattolica, il battesimo rende tutti uguali e non è reversibile. Ma il sospetto della gente e le indagini dell’Inquisizione si accanivano su ebrei e musulmani convertiti di recente, e sui loro discendenti. La difficoltà di distinguere tra cosiddetti “vecchi” e “nuovi” cristiani divenne una vera ossessione, uno dei tratti più profondi della cultura iberica, ed europea in generale».
A metà del Seicento, con l’opera sulle usanze commerciali del giurista francese Étienne Cleirac, abbiamo la prima definizione della leggenda.
«Cleirac è un nome oggi sconosciuto, espunto dal canone della storia del pensiero economico, sebbene all’epoca il suo trattato sia stato un bestseller. Cleirac nacque, visse e morì a Bordeaux, l’unica città d’Europa dove, da metà Cinquecento a metà Settecento, un sistema ufficiale di tacita tolleranza permetteva agli ebrei fuggiaschi dalla Spagna di insediarsi sotto il nome di “mercanti portoghesi”. Questa misura, motivata da interessi economici dello Stato, fomentò tuttavia gelosie tra i mercanti cattolici e grande ostilità da parte del clero e della popolazione locale, che vedevano negli ebrei battezzati una fonte di “contagio”. Dovendo spiegare l’utilità, ma anche le incognite, di strumenti creditizi come le cambiali, che facilitavano i commerci e al contempo ledevano le gerarchie sociali tradizionali, Cleirac fece leva sui pregiudizi dei propri lettori: attribuirne l’invenzione agli ebrei era un modo efficace per adombrare pericoli nascosti e imprecisabili. Le lettere di cambio erano opache come lo erano gli ebrei battezzati».
Con l’Illuminismo e con Montesquieu, si assiste a una trasformazione. Quale?
«Anche Montesquieu era nato nei dintorni di Bordeaux e senz’altro conosceva bene l’opera di Cleirac. Nobiluomo critico degli eccessi dell’assolutismo monarchico e dell’oscurantismo della Chiesa cattolica, diede un nuovo significato alla leggenda. Per lui, inventando le cambiali, gli ebrei avevano privato i despoti della capacità di espropriare loro stessi e quant’altri in modo arbitrario e sottratto il commercio al biasimo della Chiesa. Ma questa interpretazione era comunque legata a un momento storico ben preciso: a metà Settecento, Montesquieu dava ancora per scontato che gli ebrei fossero un gruppo separato e inferiore; per questo poteva esaltarne le virtù commerciali senza mettere in discussione le gerarchie sociali e politiche dell’Antico Regime».
Quali mutamenti determina l’emancipazione promossa dalla Rivoluzione francese?
«La Rivoluzione francese fu un momento di rottura: per la prima volta nella storia europea venne sancita l’uguaglianza civile e politica degli uomini ebrei. Questo fu un enorme passo in avanti, ma innescò anche reazioni nefaste. Il razzismo e l’antisemitismo pseudo-scientifici nacquero in reazione al concetto di uguaglianza, furono tentativi perversi di dare basi biologiche a differenze che la legge aveva cancellato. Perciò, invece di scemare, la leggenda che ho voluto ricostruire si diffuse ancora di più nell’Ottocento».
Intanto con Karl Marx, Werner Sombart e Max Weber la riflessione sul capitalismo avanza su basi nuove.
«Tutti i teorici classici del capitalismo moderno volevano spiegare la rivoluzione industriale e l’allora primato europeo. Marx, Sombart e Weber proposero interpretazioni diversissime di questi fenomeni, ma tutti e tre fecero ricorso agli ebrei come metafore o a versioni (più o meno distorte) della storia ebraica per dare forma alle rispettive teorie. In questo furono meno “moderni” di come spesso li concepiamo».
Seguendo la leggenda come filo di Arianna, lei ha posto in luce il riverbero pratico di un’immagine, quella degli ebrei e delle loro capacità commerciali, di cui però non esiste alcun riscontro concreto e indiscutibile nelle fonti.
«La leggenda della paternità ebraica delle cambiali prova il persistere dell’immaginazione, anche di quella meno bonaria, nella storia del pensiero economico occidentale, che troppo spesso viene descritto come un campo di studio pragmatico, teso a identificare certezze, se non addirittura leggi universali».
L’esigenza di fondare le interpretazioni su una base documentaria solida chiama in causa gli storici dell’economia, che sempre più trascurano la ricerca e in particolar modo il confronto con gli aspetti irrazionali che agiscono nel mercato, di cui la leggenda presa in esame è un esempio.
«Il credito non è un tema che si possa studiare separando la sfera economica da quella culturale. Aspettative e stereotipi contribuiscono a dare un prezzo al rischio. Questo è particolarmente vero in contesti, come quello preindustriale, in cui informazioni affidabili non erano facilmente accessibili. Ma come dimostrano le bolle speculative, anche oggi i mercati creditizi rimangono in balia di proiezioni prive di solide basi empiriche».
Ritiene che il suo studio possa suscitare interrogativi attuali, visto anche il riaffiorare di alcune delle radici dell’antisemitismo moderno?
«Contro la tendenza generale a sminuire la rilevanza delle materie umanistiche, e della storia in particolare, ho voluto ribadire il valore della ricerca accademica anche apparentemente più astrusa per comprendere alcune dinamiche di lungo periodo del capitalismo moderno. Due punti mi premono in modo particolare. Primo: oggi come nel passato esiste un forte dissenso su come regolare le economie di mercato, che è cosa molto diversa da uno scontro titanico tra capitalismo e socialismo; ci sono sempre e solo capitalismi al plurale. Secondo: gli attori economici non valicano la soglia del mercato in quanto individui astratti, privi di caratteristiche specifiche; semmai, i rapporti di potere che esistono fuori dalla sfera economica si riflettono e talora vengono amplificati dagli scambi di mercato. Ecco uno dei motivi, oltre all’ignoranza, per cui ancora oggi fanno presa stereotipi riguardanti ebrei e altre minoranze. Lo dimostra l’uso che Donald Trump e Viktor Orbán fanno delle foto dell’ebreo George Soros».