Corriere della Sera, 28 aprile 2019
La nave è femmina, anzi neutra
Ci sono lingue, come l’italiano, che prevedono la distinzione grammaticale di genere. Altre lingue non hanno questa differenza. Se in italiano dico «il ragazzo è bello» e «la ragazza è bella», in inglese «the girl is beautiful», esattamente come «the boy» (sempre beautiful). Aggettivi e articoli non variano, a differenza dei pronomi personali e dei possessivi di terza persona singolare: he, lui e she, lei; oppure his, suo di lui, e her, suo di lei. Gli oggetti inanimati sono rigorosamente neutri. Con qualche eccezione: per esempio ship(nave) e car (automobile) passano al femminile per forza di personificazione.
Ma è legittimo (politicamente corretto) attribuire un’identità femminile a una cosa? È su questo interrogativo che si è incagliata la discussione non appena il Museo marittimo scozzese, la scorsa settimana, ha annunciato di voler finalmente adottare il neutro (it). Linguisti e linguiste hanno fatto valere il proprio punto di vista: da una parte c’è chi considera «tradizionalismo anacronistico e patriarcale» l’uso dello she, dall’altra c’è chi rivendica la legittimità del femminile con connotazione affettuosa, per cui la «nave» è sentita dai marinai come una sorta di madre o di divinità protettrice. Dunque, nulla di dispregiativo. A favore di quest’ultima accezione «romantica» si è decisamente espressa la Royal Navy: «La marina ha l’antica tradizione di riferirsi alle navi con she e continuerà a farlo». Del resto, proprio qualche giorno fa a Greenwich, rompendo sullo scafo la classica bottiglia di champagne, la principessa Anna ha battezzato col nome (femminile) «Kirkella» un peschereccio pronunciando una frase grammaticalmente inequivocabile: «May God bless her and all who sail in her» (Dio benedica lei e tutti coloro che navigano in lei).
Qualcuno ha ricordato che secondo l’Oxford English Dictionary l’uso femminile è attestato già nel 1375. Altri hanno addirittura rispolverato il glottologo danese Otto Jespersen, un monumento in fatto di grammatica inglese, il quale nel suo manuale del 1933 considerava legittimo che gli uomini delle ferrovie parlassero al femminile della locomotiva: era un modo – precisava – per «mostrare un certo grado di simpatia per la cosa, che viene quindi sottratta alla semplice sfera dell’oggetto inanimato». Dunque?
Neanche il ricorso alla citazione autorevole (con sfumatura filosofica) ha convinto i «modernisti». I quali ricordano che persino il quotidiano internazionale «Lloyds List», bibbia marittima fondata (o fondato?) nel 1734, ha scelto il neutro da quasi vent’anni, avendo ormai a che fare con mostruosi «portacontainer» tutt’altro che «materni». Ci voleva Lissy Lovett, redattrice della rivista femminista online «The F-Word», per orientare l’avvincente dibattito su strade più ragionevoli: «Femminile o neutro non mi pare un grosso problema in un momento in cui trionfa la retorica transfobica, le donne nell’Irlanda del Nord non hanno ancora accesso ad aborti sicuri e la gran parte della povertà nel mondo è femminile...». Un giorno, magari, diremo «povertò».