Corriere della Sera, 28 aprile 2019
L’America e il vizio delle sanzioni
Le sanzioni sono un vecchio vizio della diplomazia americana. Se un Paese persegue politiche che non corrispondono agli interessi o ai desideri degli Stati Uniti, il presidente, il Dipartimento di Stato e in ultima analisi il Congresso decidono che quel Paese deve essere privato del diritto di vendere ciò che produce e di comperare i beni di cui ha bisogno per il buon funzionamento del suo sistema politico e sociale.
La decisione non concerne soltanto le relazioni bilaterali fra gli Stati Uniti e il Paese sanzionato. Washington pretende cha la regola venga applicata anche dagli altri membri della società internazionale e punisce i «renitenti» con multe e sanzioni inflitte dalle autorità americane. Il caso del petrolio iraniano è particolarmente interessante. Nel luglio del 2015, durante la presidenza di Barack Obama, gli Stati Uniti e gli altri membri del Consiglio di sicurezza dell’Onu insieme alla Germania, hanno firmato con l’Iran un accordo che impegnava il Paese degli ayatollah a interrompere i suoi esperimenti nucleari ma gli permetteva di vendere petrolio sui mercati del mondo. Qualche mese dopo la sua elezione alla Casa Bianca Donald Trump ha deciso di denunciare l’accordo, ha promulgato nuove sanzioni contro l’Iran e ha concesso a otto Paesi, fra cui l’Italia, una deroga temporanea che scadrà in maggio. In altre parole i Paesi che avevano firmato insieme agli Stati Uniti un accordo per risolvere pacificamente la questione iraniana sono ora costretti a scegliere fra la coerenza della loro politica estera e il diktat di un presidente che ha smentito il suo predecessore e pretende obbedienza dai suoi alleati.
Dietro questo imbroglio vi sono due caratteristiche degli Stati Uniti: l’unilateralismo, ovvero l’inclinazione ad agire senza tenere conto delle regole condivise dalla comunità internazionale, e l’extraterritorialità, vale a dire la propensione ad applicare le proprie leggi anche al di fuori della propria giurisdizione.
Questa vicenda presenta qualche analogia con un’altra che risale alla Prima guerra mondiale. Alla fine del conflitto tutti i Paesi alleati avevano ricevuto prestiti da banche americane ed erano indebitati: la Gran Bretagna per 842 milioni di sterline, la Francia per 558, l’Italia per 325. Un grande economista, John M. Keynes, disse che i sacrifici fatti dagli americani fra l’intervento e la fine della guerra (20 mesi) erano notevolmente inferiori a quelli dei Paesi che avevano combattuto dal 1914 o dal 1915. Ma gli americani non rinunciarono alle loro richieste e i debitori, bisognosi di nuovi prestiti, pagarono. Dovettero passare parecchi anni e dovette scoppiare una nuova guerra, perché gli americani si accorgessero che avevano sbagliato. Quando lo compresero il loro mea culpa fu il Piano Marshall. Non credo che sia possibile aspettarsi un mea culpa da Trump.