Corriere della Sera, 28 aprile 2019
Intervista a Javier Cercas sulle elezioni spagnole
Alla vigilia di un voto decisivo per la Spagna, occorre cercare lumi presso il più importante scrittore civile spagnolo, che ha raccontato la guerra, la dittatura, la transizione, la democrazia.
Javier Cercas, cosa sta succedendo?
«Infuria l’uso politico della storia».
Chi imbroglia le carte?
«Tutti. Per primi i separatisti catalani, che raccontano la guerra civile come un conflitto tra la Catalogna e la Spagna».
Non è andata così?
«Certo che no. Come diceva Manuel Vázquez Montalbán, uno scrittore comunista, durante la dittatura gli antifranchisti di Barcellona avrebbero potuto prendere tutti lo stesso tram».
Se è per questo Manuel Fraga Iribarne, l’ultimo braccio destro di Franco, mi disse che quando lo accompagnava a Barcellona il Caudillo sfilava tra due ali di folla plaudente. Ma è sempre difficile misurare il consenso a una dittatura, non crede?
«Quando l’alternativa sono botte, polizia politica e carcere, bisogna essere eroi per opporsi; e gli eroi sono sempre pochi. Ma adesso si è affermato un pensiero assurdo: tutto quel che era contro Franco, compreso il nazionalismo catalano, era di sinistra, ed era buono. Ma il nazionalismo di sinistra è un ossimoro; come dire che una città italiana è brutta. La sinistra o è internazionalista, o non è».
I secessionisti meritano il carcere?
«Decideranno i giudici. Hanno tentato un golpe, nel momento di massima debolezza dell’Europa, dopo la Brexit e con la Merkel al tramonto».
Un golpe incruento.
«I golpe migliori sono quelli senza spargimento di sangue: Napoleone, Primo de Rivera, de Gaulle. Al Generale riuscì il capolavoro di far sentire i compatrioti tutti resistenti. Memorabile la sua spiegazione: i francesi non hanno bisogno della verità».
Lei, nato in Estremadura, ha vissuto in Catalogna tutta la vita, ma è contro l’indipendenza. Perché?
«Perché è una bandiera per i corrotti. La Catalogna è una cleptocrazia. Parlano di patria per continuare a rubare».
Anche Albert Rivera, il fondatore di Ciudadanos, molto forte nei sondaggi, è catalano e anti-separatista. Come lo trova?
«Non granché. Però apprezzo la sua determinazione nel considerare la Catalogna patrimonio di tutti gli spagnoli. Abbiamo avuto una cultura formidabile, Gaudí e Miró. Perché regalarla ai secessionisti?».
Nel voto di oggi le previsioni danno in testa il socialista Pedro Sánchez, sia pure senza maggioranza.
«Sánchez non è male. Ha saputo emanciparsi dai vecchi arnesi del suo partito. A differenza del modestissimo Zapatero, sa di economia. Però sarà molto difficile per lui governare. Temo si torni al voto presto. E quando si vota troppo spesso, come a Weimar, la democrazia è in pericolo».
È giusto traslare la salma di Franco dal Valle de los Caìdos?
«Sì. Nessun Paese dovrebbe onorare un dittatore. Non è un monumento alla riconciliazione, ma alla vittoria. Con gli sconfitti sepolti ai suoi piedi. Non ci sono mai stato, né mai ci andrò. La guerra civile non è durata tre anni, ma trentanove. Franco ha trattato la Spagna come terra d’occupazione; pensava il Paese come un quartiere militare; però alla fine la guerra civile l’ha persa. Oggi abbiamo un re, ma è come se avesse vinto la Repubblica. Per questo dobbiamo difendere la nostra democrazia liberale».
La novità di questo voto sarà la comparsa dell’estrema destra in Spagna. Com’è potuto accadere?
«La vera domanda è come mai non sia apparsa prima. È successo in tutta Europa, anche da voi in Italia. Le cause sono molte. Crisi economica. Crisi demografica. Eccesso di burocrazia europea. In Spagna, rischio per l’unità nazionale. E immigrazione, che da noi è stata più impetuosa che in qualsiasi altro Paese: da bambino io non avevo mai visto un nero o un arabo».
Santiago Abascal è franchista?
«No. Certo non è antifranchista. La sua formazione però non è legata al regime, ma alla malattia morale del Paese basco: la sua famiglia fu perseguitata dai terroristi dell’Eta. Oggi Vox è il “Vaffa” spagnolo. Un movimento contro il sistema. Prenderà moltissimi voti, più di quel che dicono i sondaggi. Prima che Salvini, ricorda il Grillo delle origini. Abascal sta riuscendo là dove Pablo Iglesias di Podemos ha fallito».
Con Iglesias lei è sempre stato severo.
«È un demagogo totale. È passato dal Venezuela alla socialdemocrazia, da Chávez a Willy Brandt, dalla rivoluzione alla Costituzione».
Chiuse le urne, si parlerà soprattutto di Abascal. Anche lui fa un uso politico della Storia?
«Lui più di tutti. Ha aperto la campagna elettorale a Cavadonga, dove secondo la leggenda sarebbe cominciata la Reconquista. Ma gli storici hanno dimostrato che quella battaglia non c’è mai stata. La Reconquista in sé è un mito politico. Prima degli arabi, la Spagna non esisteva. Sono stati gli arabi a unificare il nostro Paese, sette secoli prima di Isabella e Ferdinando».
In Italia si parla di ritorno del fascismo. Lei è d’accordo?
«Nulla torna, per fortuna. La Storia non si ripete mai allo stesso modo. Il fascismo ai suoi tempi fu un’idea di grande successo. Franco però non era fascista».
No?
«Era un nazionalista cattolico. Del tutto privo di carisma. Pessimo oratore, a differenza di Mussolini: aveva una voce chioccia, da castrato. Questo non significa che fosse migliore, anzi era più crudele. Emerse tra i generali golpisti perché veniva dalla guerra d’Africa, basata sul massacro sistematico: vince l’esercito in cui ne resta almeno uno vivo. E dormiva benissimo, perché convinto che Dio fosse con lui».
Quando morì il Caudillo lei aveva tredici anni. Cosa ricorda del franchismo?
«Grigiore. Cattivo odore. Catechismo».
Ancora oggi la sinistra spagnola è considerata anti-cattolica.
«Da noi la Chiesa è sempre stata con il potere, e questo ha creato rancori antichi. Anche se dobbiamo sempre ricordare che i repubblicani assassinarono a sangue freddo settemila religiosi».
Abascal è un grande amante della corrida. A lei piace?
«Ci sarò andato due volte in vita mia, e quando hanno ucciso il toro ho chiuso gli occhi. Ma non trovo giusto che Barcellona l’abbia vietata solo per far dispetto a Madrid. La più antica arena di Spagna è in Catalogna, a Olot».
Non è un rito crudele?
«Lo dico da figlio di veterinario: il toro è l’unico animale che ha il privilegio di morire combattendo; infatti è trattato come un dio. La corrida è vita e morte, è maschio e femmina; il torero ha movenze molto femminili. Anche per questo ha sempre ispirato gli artisti, da Goya a Picasso».
Dopo la morte cosa c’è, secondo lei?
«Nulla. Siamo un lampo tra due oscurità. Per questo dovremmo abbracciarci e saltellare per la gioia, anziché combatterci in questo modo».