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Patrizia Cavalli è il massimo poeta italiano contemporaneo, ma è anche un grande e parzialmente sommerso fenomeno pop. In un’epoca di presunta crisi della poesia, e in generale della letteratura, sono migliaia le persone di ogni età, sesso, mestiere, estrazione sociale, formazione culturale che accorrono alle sue performance nei teatri e nelle sale da concerto, che conoscono i suoi versi a memoria, che si identificano nella riflessione intorno « ai misteri di ciò che solo in apparenza è chiaro: le ragioni e le condizioni del piacere e del dolore, i mutamenti impercettibili e decisivi che confondono o che intensificano quello che sentiamo e siamo», come ha scritto il primo e più esperto studioso della sua poesia, Alfonso Berardinelli.
Misteri universali, esposti nell’immediatezza lessicale e sintattica di un linguaggio quotidiano e contemporaneo che cerca la purezza della dizione e guarisce la mente dalla malattia dell’imprecisione. In cui le misure metriche classiche entrano con tanta naturalezza da restare celate, implicite, quasi clandestine (salvo l’agguato, a tratti, delle rime). Che ottiene il massimo col minimo di parole. Del resto questo distingue la poesia dalla non poesia: raccogliere il massimo del significato nel minimo del significante, usando la massima economia. Tradotta da Farrar, Straus & Giroux in America, dove il suo stile poetico è stato studiato e acclamato dai critici forse più e meglio che in Italia, Cavalli allinea un corpus di libri di poesie (Einaudi) il cui ultimo volume, Datura, risale al 2013: a prima della malattia con cui ha lottato, vincente, negli ultimi anni. Ora un suo libro è in uscita, sempre da Einaudi, a raccogliere prose e racconti inediti. Ma non gli inediti in versi.
«Da poco ho trovato un mucchietto di poesie con cui potrei fare un altro libro. Però non mi paiono un granché. Ad alcune manca quell’aìre, quella specie di scintilla che avevano le mie cose. Come se fossero delle poesie un po’ troppo beneducate. Non so neanche se pubblicarle o no». Nella sua casa, annidata tra i tetti della vecchia Roma, lo scirocco primaverile la infastidisce. «Notoriamente tutto dipende dal tempo e dal cielo. Sono sempre stata meteoropatica. Anzi prima lo ero in modo molto più drammatico. La mia meteoropatia, quando ero giovane, era drammaticissima. Da lei dipendevano veramente gli amori, gli odi, le disperazioni. Tutto, tutto veniva dal cielo. Col suo mutare, in tre secondi potevo guarire oppure cadere in un vero delirio».
E adesso?
«Adesso non ho queste forme repentine. Mi sento come rallentata, in tutto. Anche nel parlare. Prima parlavo con più agitazione, con più furore, con più potenza. Di nuovo, con più aìre. Adesso, in questo periodo della mia vita, mi sento prolissa, lenta. Credo sia questa orrenda malattia».
Ne vuoi parlare?
«Beh, ho avuto il cancro. Dico ho avuto perché dicono che sia guarito. Dicono. Io non ci credo. Comunque sono depressa non per questo, ma proprio perché sono guarita».
Ossia?
«Per gli effetti dei farmaci. Non so cosa sia peggio, se il male o le cure».
Ma tu hai sempre avuto un buon rapporto coi farmaci. A certi hai dedicato memorabili poesie, penso a “Deniban, calmante maggiore”.
«Le medicine stupende che ricordo io erano semmai le anfetamine. Quando si trovavano, quando ancora ce le avevo. Quelle erano la meraviglia. Quali altre medicine ci sono se no per scrivere poesie? Non esistono».
Un tempo i poeti usavano il laudano, l’oppio.
«No, quello non mi ha mai interessato».
E gli antidepressivi?
«Macché. Io sono depressa perché la malattia mi ha tolto le forze e le cure mi hanno tolto la memoria. Questa è la verità: non si possono scrivere poesie se non si ha memoria. Perché scrivere dei versi vuol dire eliminare tutto il possibile e scegliere e far brillare qualcosa che altrimenti sarebbe sommerso. Quindi la poesia è memoria. E richiede molta energia e molto entusiasmo e direi molto buonumore. Non si scrive in stato di abbattimento. Anche se si scrivono poesie tragiche».
Elsa Morante, che ti ha accolto tra i suoi amici quando sei arrivata a Roma poco più che adolescente, nel 1968…
«Elsa Morante mi ha fatto poeta. Mi ha detto una volta: “Sono felice, Patrizia. Sei una poeta”».
...diceva che per scrivere serve anzitutto una gran salute fisica. Lei non ne aveva tanta. Questo lavoro di scavo che è la scrittura, di disseppellimento e sterramento, è un lavoro che si fa anche col corpo?
«Si fa quasi solo col corpo. Ci vuole una potenza proprio del sangue che circola con impeto. Se non c’è questa urgenza fisica, perché mai scrivere? Il fatto è che non si sa perché uno scrive. Non c’è motivo di scrivere. C’è solo un empito. Non parlo di quella cosa rozza che chiamano ispirazione».
Parli invece di quella che gli antichi chiamavano musa?
«Sì la musa. Se non mi amusa più…. C’è una poesia su di lei tra questi miei inediti che ho appena ritrovato:
Dovrò dare una paghetta alla mia musa
perché non smetta mai di amusarmi.
Se non mi amusa più che scusa trovo
per le mie commediole e per i miei drammi?».
Che cos’è la musa?
«È un empito ragionante. Un empito che ragiona. Che mentre si riempie di un respiro visionario in realtà sta velocemente ragionando».
Quindi la poesia è ragione? Il suo nucleo è intellettuale?
«Intellettuale ma soprattutto sensibile. È un concetto che si presenta come sensazione in forma di ebbrezza».
Una formula dionisiaca. Che dalla musa ci porta allo spirito della musica, o anzi, prima, al teatro. Hai intitolato la tua raccolta di poesie, quella uscita nel 1999, “Sempre aperto teatro”. E c’è un elemento teatrale sempre presente in tutto ciò che fai.
«La scena è mia, questo teatro è mio,
io sono la platea, sono il foyer,
ho questo ben di dio, è tutto mio,
così lo voglio, vuoto,
e vuoto sia. Pieno del mio ritardo»
Questo è il teatro esistenziale. Poi c’è il teatro letterale. Le tue letture all’Auditorium di Roma, che hanno sempre attratto e magnetizzato migliaia di persone. Le tue traduzioni di Shakespeare e di Molière. Il tuo lavoro con la musica, le tue canzoni: “Al cuore fa bene far le scale”, “E se”…
«Io sono musicista. Suonavo il pianoforte e ho un orecchio musicale. Ho fatto quasi dei veri e propri spettacoli, cantandoli, inventandoli, con le poesie di Emily Dickinson. Mi piaceva da morire.
(Canta uno swing tinto di blues alla Bessie Smith, tra ragtime e jazz piano che si può ascoltare su Repubblica. it, ndr)
Alone, I cannot be (Sola non posso essere)
For Hosts do visit me (Perché moltitudini mi visitano)
Recordless Company ( Compagnia senza traccia)
Who baffle Key (Che elude chiavi)
They have no… da da da da (Non hanno… da da da da)
Chissà perché metto la Dickinson con delle cose tipo jazz anni Trenta. Eccone un’altra, questa la ricordo tutta. (Riprende a cantare, ndr)
Might I but moor tonight (Potessi stanotte solo ormeggiare)
In thee! (In te!)
Viene bene, no?».
Viene benissimo. Cosa viene prima, verso o musica?
«La musica l’ho frequentata da quando avevo dieci anni e studiavo il pianoforte. E però scrivevo già poesie da quando ne avevo cinque».
Hai ritrovato anche quelle?
«Devo farmi venire in mente dove ho messo il Libretto delle Confezioni… Sai quelle cose che davano con le confezioni dei negozi? Lì ho scritto tutte le mie poesie più interessanti di quando ero bambina. Ce n’era una che non si capisce proprio, e che fa:
A scatto egli si volse e vide di già
quello che fisso al guardo suo dinanzi stava
e come vide qual misterioso incanto
non vuol restarsi lì impari a Dio.
Non vuole dire niente. Però mi suonava. Nasce sempre da un suono».
Ma anche da un sentimento, dicevi. Da un affectus. Del resto le tue poesie più famose sono poesie d’amore.
«Sì, ed è stato così fin dall’inizio. Da bambina mi ero intensamente innamorata di Kim Novak. Ho un libretto di poesie dedicate quasi tutte a lei. Una diceva:
Chi sei tu dunque
Kim, Kim, Kim Novak?
Sei forse l’angelo che appar di tratto?
Sei forse luce, calore e sogno?
Sì vedo, in te vedo il bene, la luce e la speranza.
Credo, in te credo
con l’anima mi’ intera.
C’è l’elisione “ mi’intera” che mi sembrava una cosa che facesse sentire la poesia».
Fa un po’ Jacopone da Todi. Ma infatti tu a Todi eri.
«Ero parente. La mia famiglia era parente. Io discendo da Jacopone da Todi! Sì, facevo le elementari a Todi, ma forse quando ho scritto questa ero già ad Ancona. Avevo visto Kim Novak in Picnic (di Joshua Logan, con Kim Novak e William Holden, uscito in Italia nel 1956 ndr), il primo film che mi ha fatto innamorare così tanto che non capivo più niente. Dicevo alla mamma: voglio conoscere Kim Novak. E lei: ma come faccio io a fartela conoscere? E io: non me ne importa niente, voglio conoscere Kim Novak. E lei: ma come faccio? E io: ah sì? E allora non mangio. E stavo una settimana senza mangiare. Perché se non mi facevano conoscere Kim Novak io non mangiavo. Non l’ho conosciuta, naturalmente».
È così che hai conosciuto l’amore?
«Non l’ho conosciuto. L’amore non si conosce perché non esiste l’amore come condizione. Esiste una persona che di volta in volta lo incarna in diversi modi e che sempre diversamente ma inevitabilmente ti fa stare bene e male. Ti porta alla disperazione e ti mette nell’eccitazione frenetica, o anche nella felicità. Che dura però sempre meno rispetto all’infelicità. Lo dico con i miei versi: Tutto di me ti piace eccetto me, Io amabile soltanto nel fenomeno di me che spargo e dono».
Una volta hai detto che quello che ti piace dello scrivere poesie è arrivare velocemente, in pochi versi, a una specie di colpo di scena che sorprenda anche te.
«È questa la cosa bella della poesia. Questa sua velocità. Che poi, veloce… Ci sono dei momenti in cui per cercare una singola parola, o il verso fatto come dovrebbe essere, ci puoi mettere ore e ore, e giorni. Però lei, la poesia, è già in te».