la Repubblica, 28 aprile 2019
Quanto guadagnano i pompieri
Se ripenso alle immagini di Parigi in tv, mi sale la rabbia. Per il disastro di Notre-Dame, certo, ma soprattutto perché penso a quei colleghi francesi che lavoravano a 60 metri di altezza, sopra il tetto della chiesa, nelle loro belle scale con il cesto, mentre noi ci arrampichiamo sulle nostre solo fino a 37 metri. E perché so che una volta scesi avrebbero decontaminato le tute già lì sul posto e che alla fine del mese prenderanno uno stipendio molto più ricco del mio. Per non parlare dell’assicurazione: ma lo sa che per noi pompieri non c’è l’Inail?». Luca è appoggiato ad una colonna del garage del comando provinciale dei vigili del fuoco di Verona. Qualche minuto prima ha interrotto il suo discorso per ascoltare l’annuncio diffuso nel cortile dall’altoparlante. Un attimo di apprensione, poi il sorrisosollevato perché si trattava “solo” di un intervento per caduta di calcinacci in una via del centro.
«Non ne possiamo più di sentirci chiamare eroi ogni volta che arrivano le telecamere sulla scena dei disastri, delle calamità – riprende il suo ragionamento Luca – poi tutto si spegne e nessuno risponde alle nostre richieste sul contratto, sullo stipendio, sulle tutele per la salute». Luca Cipriani, 57 anni, è un capo squadra dei vigili del fuoco e ha appena iniziato la sua giornata tipo, l’adunata delle ore otto, la formazione delle squadre, il controllo meticoloso di ogni mezzo («Dobbiamo verificare più di duecento pezzi, sono vetture un po’ vecchiotte ma non ci possiamo permettere inefficienze. Per noi sono come persone»), l’attesa delle chiamate smistate dalla sala comando. I riti di sempre, come in quella giornata di inizio novembre, quando proprio da qui partì l’autocolonna giunta per prima ad Alleghe, porta d’ingresso nell’inferno della tempesta che ha devastato boschi, case, strade.
«Abbiamo lavorato per quarantotto ore senza energia elettrica, cellulari e acqua – ricorda Cipriani, che è anche sindacalista della Cgil («ma è frustrante fare sindacato in un settore dove non ci sono le Rsu e la contrattazione conta niente»). Per quella gente lo Stato eravamo solo noi. Ancora mi ricordo che poi, quando arrivarono le televisioni, una persona del posto mi chiese se non mi scocciava che la mia tuta era infangata mentre certi dirigenti del Corpo sfoggiavano la loro divisa bella linda…».
Lo Stato, appunto. Quello che, nonostante l’Italia sia per antonomasia Paese di terremoti e dissesti idrogeologici, colloca i vigili del fuoco solo al decimo posto nella graduatoria delle retribuzioni medie del pubblico impiego, appena l’1,07% sul totale del costo del lavoro statale. Un pompiere porta a casa a fine mese da un minimo di 1400 a un massimo di 1600 euro (di cui circa il 30% legato a voci variabili), e questo vale per gli operativi, ovvero vigili, capi squadra e capi reparto, perché invece la carriera direttiva, con le sue retribuzioni più alte, è preclusa a chi ogni giorno interviene concretamente nei soccorsi. Per un termine di paragone, un vigile del fuoco francese guadagna fino a 500 euro in più, mentre un poliziotto italiano circa 300 euro in più.
Ma non è solo una questione economica: incrociando le stime del Corpo e quelle dei sindacati, la carenza degli organici nazionali, che oggi per la parte operativa ammontano a poco più di 30 mila vigili (uno ogni circa 2000 abitanti), si avvicina alle 10mila unità. Il parametro di riferimento è il “tempo tecnico di 20 minuti” per l’intervento ottimale dei Vigili del fuoco, fissato qualche anno fa (ma mai diventato prescrizione) da uno studio del ministero dell’Interno: ogni minuto in più può costare in termini di vite umane e danni materiali. Ebbene, la regola dei 20 minuti implicherebbe una presenza sul territorio nazionale di 40 mila vigili, 10 mila in più appunto dello status quo, peraltro con criticità diverse da regione a regione in base alla morfologia e all’urbanizzazione del territorio.
Lombardia, Puglia, Campania, Lazio, Veneto e Piemonte presentano attualmente organici sotto la media e, dunque, servirebbe una pianificazione dei fabbisogni e delle relative risposte. Che, comunque, languono visto che ci si limita a stilare graduatorie di regolarizzazione dei cosiddetti “discontinui”, cioè i 5000 volontari che a fronte di 120 ore di corso formativo (contro i 9 mesi dei vigili professionisti) e più di 120 giorni di presenza possono essere assunti. «Insomma, una specie di ammortizzatore sociale – dice Luca – perché entra personale poco preparato e in là con gli anni. Consideri che l’età media dei vigili operativi è di 43 anni e di 52 quella dei capisquadra».
Ma il vero paradosso è quello dell’assicurazione sugli infortuni e sulle malattie professionali, visto che i pompieri non sono coperti dall’Inail ma da polizze private pagate con trattenute sullo stipendio e, in parte, dall’Opera nazionale vigili del fuoco: «Questo significa che non esistono statistiche su infortuni e malattie, e che ognuno di noi è lasciato solo davanti a una commissione che decide se e come risarcire, che non abbiamo il rimborso prime cure… Se invece ci prendesse in carico l’Inail sarebbe tutta un’altra musica: il risarcimento sarebbe automatico e obbligatorio l’adeguamento strutturale delle sedi, costi diretti e indiretti che evidentemente lo Stato non vuole accollarsi. Ecco perché ci chiamano eroi, ma poi dicono no alle nostre istanze. Ma lo sa che la nostra non è nemmeno classificata come categoria di lavoro usurante?».
«E pensare che tutte le classifiche internazionali dicono che siamo i vigili del fuoco più bravi al mondo – spiega Luca mentre entriamo nel garage dove sono allineati camion, jeep, anfibi, barche e ruspe che farebbero luccicare gli occhi a qualsiasi bambino – Vorrei riuscire a spiegare con le parole cosa prova la gente quando, terminato un intervento, ce ne andiamo dai luoghi delle sciagure: in quel momento è lo Stato che si ritira dopo aver fatto egregiamente il proprio lavoro. Anche noi ci sentiamo un po’ tristi».