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 2019  aprile 28 Domenica calendario

Intervista all’ad della Campari, Robert Kunze-Concewitz

«Per fare un buon cocktail ci vuole un mix di ingredienti. L’Italia ne ha uno potentissimo, i talenti, che cerchiamo di esportare sempre nelle nostre sedi all’estero: il paese ha un grande potenziale di cervelli, che purtroppo in gran parte è andato via. Ma nello stesso tempo i talenti sono anche il nostro punto debole: abbiamo ancora la mentalità dei campanilismi contrapposti, stile Firenze-Pisa. Si ragiona in termini di individui e non di collettività, non c’è uno stato centrale e, di conseguenza, manca un sistema paese”. Robert Kunze-Concewitz è l’amministratore delegato di una delle poche multinazionali italiane, la Campari. Una multinazionale a controllo familiare – i Garavoglia – diretta da dieci anni da un manager per tre quarti austriaco, con un nonno italiano ma nato e cresciuto in Turchia, una moglie tedesca e due figli “milanesi”, perché il manager da 14 anni ha scelto il capoluogo lombardo come città d’elezione.
Lei parla di sistema-Paese ma la Campari è globale e la sua biografia la rende piuttosto un cittadino del mondo: è ancora così importante l’Italia?
«L’Italia è strategica per Campari: è italiana la sede, oltre che la proprietà, sono italiani il 50 per cento del management e circa il 40 del fatturato proviene da marchi italiani. Rappresenta il secondo mercato per fatturato, il primo sono gli Stati Uniti, ma le due etichette più forti – Aperol e Campari – sono quelle che vendiamo di più, in tutto il mondo. All’estero proponiamo una specie di Italia in bottiglia. Da Milano, con Campari, al Veneto, con Aperol, alla Sicilia, con Averna».
Negli ultimi dieci anni l’Italia ha perso il 7% del Pil, la Campari ha raddoppiato i ricavi e il titolo in Borsa è triplicato: qual è la ricetta che voi avete e il paese non ha?
«Il nostro business è fatto di marchi e di persone. È importante trovare l’alchimia per cui uno sommato a uno fa più di due, ma sono le persone che fanno i marchi. L’Italia ha passione, raffinatezza, creatività ma anche pragmatismo, almeno nelle imprese».
Però il Paese cresce dello zero virgola, se va bene…
«I consumi sono quelli che sono e negli anni passati sono stati anche negativi. Ma io credo che si possono affrontare le cose in due modi: o si passa la vita a lamentarsi oppure ci si rimbocca le maniche, lavorando insieme. È quello che fa la differenza: prendere le individualità e farle lavorare in squadra».
Cosa ci vorrebbe?
«Penso ad un paese senza burocrazia, come meno individualità e più senso civico.
Invece di vedere qual è il proprio pezzettino di torta, cercando di massimizzarlo, bisognerebbe puntare a far crescere la torta. Prendiamo il mondo del lusso: in Italia non si è riusciti a fare aggregazioni, in Francia sì. Lì hanno creato il Comité Colbert, in cui le imprese collaborano. Da noi non funzionerebbe, troppo individualismo».
Un polo del lusso non è nato ma uno degli alcolici sì.
«Quello che abbiamo fatto è stato ricomprare marchi italiani che avevano proprietari stranieri: Cinzano, Frangelico, la stessa Aperol, presa da un private equity inglese. Spesso è successo proprio questo: invece di coagularsi intorno ad un polo, si è preferito vendere a un gruppo straniero».
E quando vi muovete all’estero vi manca qualcosa?
«Direi di no, ma resta il fatto che non c’è un sistema paese. Il nostro competitor Pernod Ricard ha un grande supporto dalla Francia. In generale, quello che manca sono gli incentivi ai marchi, la facilità di assumere o di ristrutturare».
Servirebbero più incentivi per rilanciare gli investimenti?
«In generale sì, anche se noi siamo comunque molto orientati alla crescita. Lo abbiamo fatto con le acquisizioni e migliorando il mix delle vendite, con marchi che garantivano una redditività maggiore, in prima linea gli aperitivi Campari e Aperol. Il nostro vantaggio è essere quotati in Borsa: ci permette di attrarre capitali. Ma la nostra grande fortuna è avere come azionista di maggioranza una famiglia che pensa e agisce a lungo termine: dopo la crisi del 2008 abbiamo investito più di due miliardi. Nello stesso tempo, dà tutto il supporto che serve al management e punta sulla meritocrazia. Da noi tutti sanno che non ci sarà mai un membro della famiglia catapultato davanti a loro solo perché ha quel cognome. E nel quadro italiano è una cosa abbastanza particolare: il loro è un approccio quasi calvinista».
In realtà non avete mai chiesto aumenti di capitale.
«Però, negli anni 2011-2013, quando tutto remava contro, abbiamo continuato ad investire come se nulla fosse chiudendo la maggiore acquisizione fino a quel momento, il Kentucky Bourbon Wild Turkey. Abbiamo rifatto l’azienda, i sistemi informatici, abbiamo investito nella rete commerciale. In quegli anni gli investitori ci hanno abbastanza punito ma sapevamo che erano le cose giuste da fare».
Piuttosto sono stati pazienti con i dividendi, che non sono mai stati molto generosi.
«Abbiamo garantito agli azionisti un ritorno complessivo medio – tra cedola e aumento del prezzo di Borsa – del 15% all’anno. I soldi vengono reinvestiti nell’azienda: facciamo quello che dovrebbe fare l’Italia. Che invece è ferma e non fa investimenti».