Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  aprile 28 Domenica calendario

Sui saggi di Franzen ed Enzensberger

L’ultimo libro di Jonathan Franzen pubblicato in Italia, La fine della fine della terra, è una raccolta di saggi che si apre con un’introduzione intitolata «Scrivere saggi in tempi bui», la quale si apre a sua volta con queste parole: «Se consideriamo la parola saggio nel senso di prova – qualcosa di azzardato, non definitivo, non autorevole; un tentativo fatto sulla base dell’esperienza personale e della soggettività dell’autore – potremmo dire che viviamo nell’età d’oro della saggistica». 
Parlo per esperienza personale e soggettivamente se dico che ho letto queste righe con un senso di sollievo venato di sconforto. Quando più di trent’anni fa provai a insinuare, anzi perfino a teorizzare quanto ora afferma Franzen, nessuno se ne accorse, tutti si girarono dall’altra parte. Dunque la mia previsione o diagnosi si dimostrò sbagliata. All’arte del saggio continuò a essere preferita l’arte del romanzo, e ora non mi sembra che le cose siano cambiate. Tra l’altro, nonostante le personali preferenze, la mia modesta e poco originale teoria del saggio prevedeva per questo genere letterario un destino di marginalità e di discrezione. Pur essendo stato già diffusamente dominante per tutto il Novecento, spiegando, giustificando, commentando il disagio formale e sociale di tutte le arti escluso il cinema, il saggio non era mai stato percepito come protagonista se non da pochi e consapevoli saggisti come Kraus, Lukacs, Virginia Woolf, Mario Praz, George Steiner. Penso tuttora che per il saggio un’età dell’oro non ci sarà mai, per la semplice ragione che non ci si accorge neppure che quell’età c’è stata già varie volte, senza sfiorare la consapevolezza degli storici e teorici della letteratura.
Richiamo l’attenzione su queste cose perché oltre al libro e all’audace affermazione di Franzen, una testimonianza esemplare a favore della forma saggistica ci arriva anche da Hans Magnus Enzensberger, di cui compare ora Panopticon. Venti saggi da leggere in dieci minuti. Enzensberger, che Mario Vargas Llosa definì «il principe dell’intelligencija europea», fu una rivelazione come angry young manall’inizio degli anni sessanta del secolo scorso, e fino a oggi ha fatto convivere felicemente come nessun altro poesia e saggistica: l’una accanto all’altra, ma anche l’una dentro l’altra. Due dei suoi libri poetici più famosi, Mausoleum (1975) e La fine del Titanic (1978), sono poemi saggistici: una specie aggiornata di epica enciclopedica a proposito di un problema caratteristico della civiltà occidentale, quello del rapporto fra progresso e catastrofe, progresso e follia, illuminismo e oscurantismo.
Salvo che nei suoi primi libri, tuttavia, il pessimismo culturale di Enzensberger ha un sapore più ironico e scettico che catastrofico. Del resto le catastrofi sono sempre state così frequenti sia in natura che nella storia, da apparire più una regola che un’eccezione. Ogni progresso è interrotto da catastrofi e ogni nuova catastrofe spinge avanti il progresso: non si sa bene verso dove, ma sempre alla ricerca di una maggiore sicurezza e di un maggiore controllo, due miraggi di cui non si riesce a fare a meno. I veloci, concentratissimi, acrobatici saggi di Panopticon, anch’essi enciclopedici, non smettono di illustrare i limiti del nostro potere di conoscere, prevedere, controllare, eliminare rischi, incertezze e paure. Si sa che più si ha paura della paura e più questa aumenta, prendendo sempre nuove forme giustificate da situazioni nuove.
È così che l’ironia di Enzensberger insegue e registra l’ironia dei fatti, confrontando progetti grandiosi con risultati minimi o nulli, vaste e allettanti prospettive con fallimenti a volte allarmanti, a volte drammatici, a volte ridicoli. Da illuminista senza fede che si applica e si diverte a osservare proprio quei dettagli fattuali e pratici che vanificano le pretese sistematiche di ogni teoria, l’autore non ha mai dimenticato che anche Voltaire, campione dell’illuminismo classico, scrisse un poema sul terremoto di Lisbona del 1755, mostrando che l’incontenibile e poco prevedibile natura mette di continuo a tacere l’ottimismo antropocentrico e progressista di una specie umana che cominciava a ubriacarsi di modernità.
L’impegno politico che caratterizzò il primo ventennio dell’attività di Enzensberger, in tempi di guerra fredda, sfida nucleare Usa-Urss, dittature nel terzo mondo, industria della coscienza e democrazia unidimensionale, è un impegno che si è indebolito con gli anni ottanta, o ha soltanto cambiato stile. Alla rabbia si è sostituito allora uno scetticismo che misura la distanza tra filosofie, luoghi comuni e fatti reali. In quanto saggista, Enzensberger è un filosofo antifilosofico che teme il contagio delle idee fisse e dei sistemi troppo coerenti con cui lavorano i custodi professionali e sacerdotali del «che cosa significa pensare». Pensare è bene, suggerisce Enzensberger, ma osservare è indispensabile. La varietà e pluralità dei fenomeni e dei casi singoli è esorbitante e indomabile. Se deve ricordare con simpatia e ammirazione un intellettuale tedesco, sceglie perciò di dedicare un capitolo di questo libro ad Alexander von Humboldt (1769-1859), alla sua curiosità di geografo e naturalista, al suo nomadismo cosmopolita, al suo rifiuto di accettare cariche pubbliche vincolanti e alla sapiente prudenza con cui trattò con i poteri politici tenendoli a distanza e cercando di non farsi notare. Per i patrioti non era abbastanza tedesco, ai reazionari sembrava un giacobino, secondo gli antisemiti era un amico degli ebrei e per i bigotti un ateo.
Ancora una volta la scrittura saggistica di Enzensberger ha sul lettore un effetto corroborante. La sua avversione per i feticci e le mode culturali ha perfino qualcosa di fobico. Sente dietro ogni affermazione generale o generica la minaccia di una gabbia mentale o di un imperativo intimidatorio. L’antidoto è perciò descrivere, enumerare, andare spietatamente a caccia di assurdità che passano inosservate. C’è in questa prosa una passione ludica per la dialettica del paradosso. Da un lato si accumulano informazioni e aneddoti, dall’altro l’immaginazione dialettica connette fenomeni che la coscienza comune non mette in relazione. In questi veloci saggi leggibili «in dieci minuti» lo spirito del vaudeville incrocia la critica della cultura. Colui che in gioventù sembrò allievo in parte di Brecht e in parte di Adorno, continua a dimostrare una sorprendente efficienza argomentativa e stilistica nel focalizzare i suoi temi: che si tratti di economia o di previsioni orwelliane, di asfissiante cultura e di estetica del brutto, della scienza come religione laica e di salutare common sense. 
Una delle migliori performance del libro è il saggio sullo sporcarsi, sul pulire e sul perché i filosofi abbiano ignorato “il problema dello sbrodolarsi”, del macchiarsi e schizzarsi e di come, combattendo contaminazioni, polveri, batteri e impurità di ogni tipo, si sia finiti in una nevrosi ossessiva, strettamente personale o minacciosamente politica, che va dalla paura del contatto alla pulizia etnica. Oggi i detersivi contaminano più dello sporco. E i tentativi di impedire che il mondo sia promiscuo, producono atti di follia criminale.