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 2019  aprile 28 Domenica calendario

Da Sharjah l’islam ci guarda

dal nostro inviato a Sharjah (Emirati Arabi)
Sharjah è la capitale culturale degli Emirati Arabi Uniti. È insieme antica e moderna. Le strade sono trafficate ma con sei corsie a disposizione di ingorghi non se ne vedono. La arteria principale corre tra il mare e una fila interminabile di grattacieli. Dietro l’aspetto ipermoderno si nascondono, appena all’interno, il suk e una serie di case basse, in vicoli labirintici. Il passato dunque? Non esattamente. Perché complessi di piccole abitazioni si articolano in resort di una bellezza mozzafiato (se riuscite a non perdervi) e il suk è ordinato come via Montenapoleone a Milano. Incastrate tra il vetro e il cemento, si ergono le moschee, che vanno dal modesto allo sfarzoso; quella spettacolare di Al Noor si affaccia sul mare ed è vicina al ponte che conduce all’omonima isola. Il piccolo parco della piccola isola si segnala per due cose: l’area delle farfalle e quella destinata alle discussioni letterarie. Quando passiamo, ci sono circa quaranta donne che parlano presumibilmente di un (...)
(...) libro. A proposito di donne: se ne vedono col burqa (poche), col velo più o meno integrale (molte) e vestite all’occidentale (abbastanza). Alcolici banditi completamente. Fumo quasi. Le donne lavorano e si incontrano spesso anche in posti di potere o comunque ambìti.
Un giorno lo sceicco Sultan III bin Muhammad al-Qasimi deve aver guardato la sua città da 500mila abitanti e deve aver pensato: Abu Dhabi ha il petrolio, Dubai ha il divertimento. Bene, Sharjah avrà la cultura. Costa poco (!) e rende molto in termini di immagine e, già che ci siamo, di propaganda. Ci sono numerose fondazioni private e iniziative per promuovere il libro, tra cui la più importante fiera del mondo arabo. C’è un distretto per gli editori: è una free zone, cioè una zona senza tasse. C’è un festival cinematografico in ascesa. In teoria la censura non c’è, in pratica meglio evitare la politica e l’erotismo. Su questi temi è impossibile ottenere una risposta netta. Ti dicono sempre: dipende... Nonostante ciò, l’Unesco ha donato a Sharjah il titolo di Capitale mondiale del libro 2019. La carta vincente è stata l’idea di portare in ogni casa uno scaffale di libri da scambiarsi, una volta letti, con i vicini. In arrivo anche una maxi biblioteca all’insegna della tolleranza e dello scambio. Ci saranno dunque anche libri «proibiti»? Dipende... Tra le altre iniziative si segnala la partecipazione di Sharjah come ospite d’onore al prossimo Salone internazionale del libro di Torino, dal 9 al 13 maggio. Previsto un mega-stand provvisto di romanzi, poesie e saggi tradotti in italiano dall’arabo.
Poi ci sono i musei. Nel deserto sorge il Centro archeologico di Mleiha. Sono quaranta minuti di automobile da Sharjah fino alla località dove sorgeva l’antica città di Mlehia. Le fortificazioni si innalzavano in una zona ricca d’acqua e foreste, perfetta per transitare in ogni direzione, essendo poco distante da Sharjah e da Dubai, cioè dai porti. Oggi è un cumulo di rovine alle porte del deserto. Il periodo d’oro della città si colloca intorno al 300 avanti Cristo: sono stati sottratti alla sabbia pozzi e un complesso sistema di irrigazione, oltre alle tombe, incluse quelle degli animali sacrificati (cammelli e asini). Un piccolo museo funge da introduzione alla attrazione principale della città nel deserto: il deserto stesso. A geografia variabile a causa del vento, con dune di sabbia rossa da percorrere a tutta birra in 4x4 per evitare di restare bloccati, il deserto potrebbe sembrare quanto di più selvaggio ci sia a disposizione. Ma la civiltà non si lascia dimenticare. Laggiù ci sono i tralicci della corrente elettrica, non sono un miraggio. Il sole tramonta e si accendono le stelle, nell’oscurità quasi completa, anche se le luci di Dubai cercano una strada per raggiungerci. In tenda, con una grigliata sotto i denti, queste cose si apprezzano meglio.
A Sharjah sono da vedere il Museo della civilizzazione islamica e la Biennale d’arte. La visita, molto interessante, produce uno strano effetto. Siamo noi occidentali davanti alla cultura araba ma vale anche il contrario perché la cultura araba parla (e molto) di noi occidentali.
Partiamo dalle didascalie. Una didascalia ben fatta dice molto. Le didascalie al Museo della civilizzazione islamica di Sharjah, uno dei più importanti al mondo, comunicano al visitatore che nella storia degli scambi tra Oriente e Occidente è il secondo a essere in debito. A ragione: l’antica cartografia araba è stupefacente per precisione. A torto: non è merito esclusivo dell’islam il salvataggio degli autori della Grecia antica. La massa di queste osservazioni «comparative» fa impressione: quante didascalie di questo tipo bisogna scrivere prima di accorgersi che c’è un problema tra Oriente e Occidente, o meglio che l’Oriente ha un problema con l’Occidente? Nessuno, in Europa, si sogna di negare il contributo arabo alla nostra cultura, ad esempio è riconosciuto che l’origine della poesia provenzale affondi le radici nella poesia arabo-andalusa. Nel museo di Sharjah, invece, si rappresenta un’Europa piombata nei secoli bui del Medioevo, parzialmente illuminata dall’islam.
Il museo riserva più di una sorpresa. Chiaramente il Corano ha indirizzato lo sviluppo culturale in ogni direzione. La parola assume una rilevanza fondamentale. Ecco dunque manoscritti del Libro sacro, con miniature che accarezzano lo splendore sinuoso della calligrafia (alla quale è dedicato un museo a parte). Ecco la sontuosa kiswah, enorme tappeto decorato con parole dorate, che valorizza gli ingressi delle moschee e in particolare copre la santa Ka’ba.
Il Corano spinge ad allargare i confini dell’islam. Prescrizione adatta per un popolo di guerrieri e commercianti. Così si spiega la finezza delle mappe e dei mappamondi arabi. Il Corano spinge a osservare la preghiera. Ma i primi fedeli non avevano riferimenti temporali validi. Questo li spinse a calcolare con precisione i movimenti della Luna, punto di partenza per dividere le giornate in base alla preghiera. Ma dalla Luna al resto del cielo è un piccolo passo. Gli astronomi lo fecero senza indugi e hanno lasciato un enorme patrimonio di astrolabi e sfere armillari, strumenti ottimi anche per la navigazione. Non mancano le armi e la descrizione di una nave araba, temibile perché estremamente veloce. Tra le opere d’arte spiccano le decorazioni in pietra, con le parole del Corano, e le ceramiche, ornamento di molte case o palazzi. Ci sono solo cinque o sei figure umane (vietate nell’islam) in oggetti o opere di origine pre-islamica. Poi ce n’è una appartenuta a un monaco sufista: è il diavolo con le corna montato su un oggetto rituale per scacciare Lucifero e i suoi aiutanti.
Che ci sia una punta di rivalità nei confronti dell’Occidente è confermato dalla Biennale d’arte. Inserita in un bel complesso di case antiche attigue al suk, ha come tema predominante la fuga dalle fake news, dalla storia scritta dai vincitori, dai pregiudizi culturali, dai monopolisti del Web. I curatori sono Zoe Butt, Omar Kholeif e Claire Tancons. Ognuno ha allestito la sua mostra. Il titolo complessivo dell’esposizione è «Leaving the Echo Chamber». Partecipano ottanta artisti da tutto il mondo ma non dall’Italia. Circa cinquanta installazioni, performance, quadri sono stati commissionati dalla Biennale stessa. La «Echo Chamber» è il sistema autoreferenziale dei media che agisce in due modi: amplifica le notizie al fine di confortare i cittadini, confermandone i luoghi comuni; detta l’agenda politica, manipolando i cittadini dopo averne conquistato la fiducia. La Biennale vorrebbe dunque farci uscire dalla «Echo Chamber» per proporre una visione diversa dell’arte, della storia, della società. Abbiamo i migranti ritratti da Khadim Ali come demoni, facile metafora del profugo appunto demonizzato (da chi? Da noi). Nella stanza con le opere di Alessandro Balteo-Yazbeck abbiamo l’affastellarsi di immagini stereotipate e photoshoppate di una cultura fondata sull’effimero (quale? La nostra). Michael Rakowitz, in The Ballad of Special Ops Cody, mette in scena un Big Jim vestito da militare che si confronta con le statue millenarie del deserto arabo, senza capire cosa sono e cosa dicono (militare di quale esercito? Stati Uniti, i suppose).
Ancora una volta il bersaglio prediletto è l’Occidente: pregiudizio culturale? Bisogna dire che il mondo dell’arte «occidentale» milita sempre dalla parte opposta rispetto all’Occidente borghese, capitalista, colonizzatore. In questo, gli artisti proposti alla Biennale sono identici ai nostri. Neppure a Sharjah si esce dalla «Echo Chamber». Al netto di questo malcelato desiderio di rivalsa, amplificato e distorto dalle disastrose missioni in Iraq e Afghanistan, è interessante vedersi attraverso gli occhi degli altri.
Come siamo? Arroganti, immorali, decadenti. Abbiamo problemi giganteschi da affrontare: cosa fare dell’Unione europea; l’immigrazione di massa; la mancata integrazione degli immigrati; l’islam europeo con le sue rivendicazioni inconcepibili in uno Stato di diritto; il terrorismo islamico; lo spappolamento del ceto medio; una tassazione selvaggia. I nostri intellettuali rispondono con vecchie litanie, sono in preda ai sensi di colpa per aver distrutto l’Europa, sfruttato il mondo e inventato le camere a gas. La memoria è importante, per carità, ma gli intellettuali di oggi scimmiottano il vero travaglio delle generazioni uscite dalla guerra. Alternative non se ne vedono. La repressione, ammesso che sia possibile, può essere una risposta? Un muro può arginare le masse affamate? Si può fuggire dall’Unione europea? La globalizzazione è inevitabile ma è anche desiderabile? Appellarsi alle tradizioni non porta soltanto a una penosa forma di autoritarismo in assenza di un’autorità credibile? Quanti punti interrogativi... La verità è che non abbiamo risposte. Vogliamo solo deporre il fardello della libertà, troppo pesante per chi non ne capisce più il significato. L’Europa è diventata un tempio diroccato in cui echeggiano parole su parole. È un aborto di chiacchiere obsolete. Siamo una società di eredi, discendenti, degenerati. Offriamo la parodia del Novecento. Il mondo ci guarda disgustato nell’attesa del momento giusto per spazzarci via.