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 2019  aprile 28 Domenica calendario

Biografia di De Gaulle

La mezzanotte di domenica 27 aprile 1969 era passata da dieci minuti, quando dal palazzo dell’Eliseo partì un messaggio di poche parole: «Smetto di esercitare le mie funzioni di Presidente della Repubblica. Questa decisione sarà effettiva oggi a mezzogiorno». Charles De Gaulle usciva così dalla Storia, undici anni dopo esservi rientrato. Non erano ancora definitivi i risultati del referendum sulla riforma del Senato e la regionalizzazione che aveva convocato e già traeva le conseguenze dalla sconfitta che si annunciava: senza la fiducia del popolo non si governa. Si ritirò nella sua casetta di campagna a Colombey-les-deux-Eglises e non disse più una parola in pubblico. Un anno e mezzo dopo, nel novembre del 1970, morì. Non aveva ancora compiuto 80 anni.
Questo gesto così radicale e apparentemente impulsivo ci parla di una coerenza politica rara.
Il socialista Lionel Jospin ha lasciato la politica dopo la sconfitta contro Jean-Marie Le Pen nelle Presidenziali del 2002; mentre il gollista Jacques Chirac, pur battuto nel referendum del 2005 sulla «costituzione» europea, è rimasto al suo posto, rompendo così con quella tradizione che per De Gaulle rappresentava l’essenza stessa della Quinta Repubblica, l’assetto costituzionale presidenziale tuttora in vigore che fa del Capo dello Stato un monarca repubblicano. Fu così che nel 1958, con De Gaulle e il suo metro e 96 di altezza, i francesi avevano ritrovato la figura forte e carismatica persa nei caotici regimi parlamentari della Terza e Quarta Repubblica. Ma De Gaulle aveva voluto instaurare attraverso il ricorso frequente al referendum una legittimazione supplementare. Ne fece cinque in undici anni.
L’ultimo gli è stato fatale. Quel 27 aprile 1969 il 52 per cento dei francesi respinse la sua proposta di riforma del Senato e la regionalizzazione dell’amministrazione. Ma al di là del merito è sempre il marchio politico a segnare un referendum, e per De Gaulle era quello il timbro della fine del rapporto quasi mistico con il Paese. Nelle sue memorie si leggono frasi come questa: «C’è in me un’immagine naturale della Francia come la principessa delle fiabe o una madonna affrescata e votata a un destino eminente ed eccezionale».
Nella biografia del Generale uscita da pochi giorni per le Éditions de l’Observatoire e intitolata Adieu, la France!, la giornalista Christine Clerc (di dichiarata fede gollista) parla di «un grand amour brisé»: la sconfitta in quel referendum fu come la rottura di un grande amore. Tra la primavera del 1968 e quella del 1969 si è così compiuta la parabola politica e umana di un leader che nelle sue scelte appariva a tratti duro e autoritario, a tratti incerto e persino ingenuo. Il ’68 l’aveva preso alla sprovvista (ma non fu certo il solo) e mentre sui boulevard del Quartiere Latino di Parigi si combatteva a colpi di molotov, pavé e manganellate una battaglia tra generazioni e tra culture, il generale aveva a lungo taciuto. Era stato tentato dal referendum, ma dissuaso dal primo ministro Pompidou, destinato a succedergli, aveva sciolto l’Assemblée (il parlamento) eletta appena un anno prima e convocato le elezioni politiche. Il risultato fu una schiacciante vittoria della destra repubblicana, ma per De Gaulle soltanto un mezzo successo: se l’ordine era tornato nel Paese, il vento della politica stava significativamente girando come si vide un anno dopo.
L’eredità storica di De Gaulle è immensa: il riscatto della nazione dall’umiliazione dell’occupazione nazista, dalla vergogna della collaborazione e della consistente deportazione di ebrei rifugiati, la fine della guerra d’Algeria, l’avvio della decolonizzazione. È stato l’uomo di un’ostinata identità nazionale, dell’affermazione di quella «certa idea della Francia», che dall’esilio di Londra, nel 1941, scriveva: «Esiste un patto di venti secoli tra la grandezza della Francia e la libertà del mondo».
Tuttavia, ci dice Marc Lazar, politologo e storico, docente a Sciences Po e alla Luiss, se una volta la sua figura era contestata dalla sinistra anche moderata e dalla destra estrema, oggi l’eredità di De Gaulle fa l’unanimità della politica. Il suo attaccamento all’istituto del referendum era definito «bonapartista» (in riferimento al Secondo Impero di Napoleone III), François Mitterrand parlava di «colpo di Stato permanente». E Jean-Marie Le Pen, espressione dell’estrema destra «pieds noir», colonialisti oltranzisti, odiava De Gaulle per la concessione dell’indipendenza all’Algeria. Eppure due anni fa la figlia Marine ha inviato il suo vice a deporre i fiori sulla tomba del generale.
Secondo Lazar questo consenso su De Gaulle esprime oggi nostalgia: «La sua lezione politica è stata quella di far credere ai francesi che la Francia era ancora una grandissima potenza quando già non era più vero». Il generale si trovò spiazzato di fronte all’onda del ’68, che non fu solo studenti, ma anche movimento operaio protagonista in quel maggio fatale del più grande sciopero della storia di Francia. «Ma non c’è paragone con i gilets jaunes di oggi», dice Lazar, tuttora forti di una notevole solidarietà popolare. Emmanuel Macron, che ha infarcito di simboli «bonapartisti» la sua presidenza, ha rifiutato il referendum chiesto dal movimento. E per ora è questa la sua «lezione» gollista.