Corriere della Sera, 28 aprile 2019
Intervista a Pietro Valsecchi
«Io non sono italiano, sono bergamasco. I bergamaschi si ritengono una razza a parte, superiore». Il produttore Pietro Valsecchi esordisce con tono provocatorio. «Provocatorio? No! È la verità».
E per quale motivo voi bergamaschi vi sentite superiori? A cosa?
«È un fatto culturale di comportamento. A Bergamo, per fare un accordo, basta stringersi la mano e guardarsi negli occhi, cosa che in Italia non esiste più».
Va bene, ma lei è nato a Crema e non a Bergamo.
«Sì ma le mie origini familiari sono bergamasche, i miei nonni facevano i contadini e avevano delle terre da quelle parti. Poi, avendo fatto pessimi affari, sono emigrati in Francia. Forse per questo ho una grande passione per i francesi».
Insomma, lei si sente bergamasco e un po’ francese, però come produttore ha fatto fortuna in Italia.
«È vero e nella vita professionale ho sempre raccontato storie italiane vere e mi sono trovato spesso a conoscere i personaggi che volevo rappresentare oppure coloro che li avevano conosciuti».
Tra quelli più impegnativi?
«Papa Wojtyla, di lui ho un ricordo tra i più vividi. Quando lo incontrai, era già malato e non parlava più. Però era molto ben informato e sapeva che stavo realizzando una serie sulla sua vita. Dopo avergli esposto il progetto, mi strinse forte la mano e mi lanciò uno sguardo che non dimenticherò mai. Mi voleva dire: “Non sbagliare!”».
Poi toccò a Papa Francesco...
«Fu molto commovente la prima proiezione del film in Aula Nervi. Il Papa aveva deciso che dovessero assistere 7 mila poveri di Roma e non i soliti invitati scelti dal protocollo. L’applauso commosso di queste persone ha lasciato in tutti noi, che avevamo lavorato al tv-movie, un segno indelebile».
Non solo Papi, però...
«Il set più preoccupante fu quello del Capo dei Capi, su Totò Riina. Ebbene: nonostante fosse al 41 bis, il signor Riina sapeva che nella storia avevamo inserito un episodio relativo a sua moglie, Ninetta Bagarella, che lui riteneva non veritiero e ce lo mandò a dire! Confesso che fu un momento davvero difficile: ci allarmammo non poco».
Le storie che non è riuscito a rappresentare?
«Quella di Mohamed Yunus, il banchiere dei poveri: avevo letto il suo libro ed ero conquistato dalla sua visione rivoluzionaria. Avevo proposto il progetto a Oliver Stone, figlio di un banchiere, che declinò l’invito. Ne parlai con Gianni Amelio e il film doveva essere prodotto da Vittorio Cecchi Gori e, per definire i dettagli, fui invitato su un mega yacht attraccato davanti al porto di Cannes durante il festival del cinema. Me ne andai alla chetichella...».
Perché?
«Per parlare di povertà, mi trovavo nel lusso sfrenato di una festa scatenata, non era il posto giusto. Un’altra storia che non ho mai girato è quella della principessa di Monaco, Grace Kelly. Dopo un lungo lavoro diplomatico, riuscii ad avere un appuntamento con il principe Alberto: molto emozionato, entrai nella residenza dei Ranieri e finalmente iniziai a esporre il progetto, ma ben presto mi resi conto che il Principe probabilmente soffriva di narcolessia, durante l’incontro ogni tanto si addormentava, per poi risvegliarsi. Fu cortese, ma capii che non avrebbe mai appoggiato l’operazione. Stessa cosa successe con gli Agnelli».
Anche loro!
«Avevo scritto un bel copione dedicato alla vita dell’Avvocato, scomparso da poco. Chiesi di incontrare i familiari, John, Lapo Elkann ecc... ognuno mi indirizzava a un altro. Era meglio abbandonare l’idea, non avrei mai potuto raccontare questa storia nel modo gradito ai parenti. Un incontro importante, però, l’ho avuto con Francesco Cossiga, durante la stesura della miniserie su Aldo Moro: venne spesso nel mio ufficio per descrivermi i giorni del rapimento, uno dei grandi misteri italiani. L’ex presidente mi forniva solo il suo punto di vista, lasciando in ombra altri aspetti che credo non riusciremo mai a conoscere fino in fondo».
E pensare che voleva fare l’attore in palcoscenico...
«I primi passi al Teatro Zero della mia città: era uno spazio militante negli anni caldi del movimento studentesco. Portavamo gli spettacoli nelle fabbriche occupate. Brecht era l’autore che rappresentavamo più spesso, per sollecitare domande scomode: in teatro si entra uniti e si esce divisi».
Un attore impegnato, dunque.
La militanza teatrale si sposta poi a Roma.
«Il mio esordio nella Capitale avvenne una sera davanti a due sole spettatrici: Dacia Maraini e Sofia Scandurra. Apprezzarono la mia recitazione, tanto che mi proposero di interpretare un ruolo nel film Io sono mia: un set femminile e femminista, caotico, un’esperienza straordinaria a fianco di Stefania Sandrelli e Maria Schneider... però il teatro restava il mio unico amore».
E riparte dall’impegno politico con Terroristi di Mario Moretti.
«Il mio primo ruolo da protagonista: un’indimenticabile avventura, grandi elogi dalla critica, mi convincevo che era il mio mestiere, però a 28 anni ho deciso di voltare pagina: non più attore, né in teatro né al cinema».
Perché?
«Ai miei amici dell’epoca, Michele Placido, Alessandro Haber, Fabrizio Bentivoglio, venivano proposti spettacoli o film importanti, a me solo piccoli ruoli. Avevo bisogno di lavorare e guadagnare e mi resi conto che come attore non avrei mai sfondato. Andai in crisi, ma non mi persi d’animo. Cominciai a leggere testi, copioni, libri... e li suggerivo agli amici primi attori».
Così nasce il produttore Valsecchi.
«Mi definisco un portatore sano di idee. Il primo grosso impegno produttivo fu con La condanna di Marco Bellocchio, con cui arrivammo all’Orso d’argento di Berlino».
Ma è l’incontro Camilla Nesbitt a cambiare le carte in tavola.
«La conoscevo perché anche lei faceva la produttrice, mi piaceva e avevo iniziato a corteggiarla, ma non mi filava. Finalmente in aereo, mentre andavamo al Premio Solinas, lei mi degna di uno sguardo e dice: Valsecchi siediti qui, vicino a me. Da quel posto non mi sono più alzato, siamo uniti da 27 anni».
Uniti nella vita e nel lavoro.
«Insieme abbiamo capito che la tv era il futuro, non c’era più lo spazio per raccontare la realtà come aveva fatto il grande cinema civile dei Rosi, Petri, Bertolucci, Olmi... Era impensabile rifare quei film, che raccontavano un’Italia diversa. Noi volevamo rappresentare quella attuale e per farlo era necessario cambiare il mezzo: il piccolo schermo. Abbiamo unito le forze, creando la Taodue. In tutti questi anni abbiamo prodotto oltre mille ore televisive, tra tv-movie e fiction».
Un impegno costante, tanti i titoli famosi.
«E pure un allenamento quotidiano alla logica spietata dello share che ti fa crescere l’ansia: quel numerino, alle 10 di mattina, decreta implacabilmente se tutto il lavoro di mesi, a volte anni, è stato apprezzato. Uno stress terribile che mi ha causato fibrillazioni continue, fino a condurmi in ospedale e a dovermi operare: un’ablazione cardiaca. Per fortuna sto molto meglio».
La fortuna al botteghino arriva con Checcho Zalone.
«Quando ho venduto la Taodue a Mediaset, mi davano per morto, finito. E invece ho tirato fuori dal cilindro un jolly: tutti mi sconsigliavano di fare un film con lui come protagonista e adesso, dopo quattro successi che hanno incassato in totale 200 milioni di euro, stiamo girando il suo nuovo lavoro dove firma anche la regia. È girato in Africa e si intitola Tolo Tolo, dall’espressione usata da un bimbo africano quando, nel film, incontra per la prima volta Zalone. Ma sto già pensando a una fiction su Ilaria Cucchi».
Lo sbaglio madornale che ha compiuto sia in privato, sia nella professione?
«In privato, l’aver trascurato i miei figli, essendo troppo concentrato sul lavoro, credo di non essere un ottimo padre. Forse dipende dal fatto che i miei genitori sono morti troppo presto e non ho avuto figure con cui relazionarmi sotto questo profilo. Per fortuna ho due ragazzi, Virginia e Filippo, che si stanno costruendo la propria carriera in maniera autonoma: lei muove primi passi nella produzione, lui fa il cantautore. Nella professione? Non aver vinto un Oscar».
Un suo difetto insopportabile?
«Dire in faccia alle persone ciò che penso senza rendermi conto delle conseguenze. Un difetto che non ho è l’invidia, diffusissima in Italia: chi non sa fare semina zizzania».
A proposito di invidia, tra due anni finisce l’esclusiva con Mediaset: cosa farà?
«Tranquillizzo tutti: non so a chi dare i resti. L’unica cosa che mi manca, forse, è tornare alle origini. Mi piacerebbe produrre progetti teatrali, magari prendere in gestione un vecchio cinema nel cuore di Roma e trasformarlo in un luogo d’arte e intrattenimento: spettacoli, ma anche mostre, libri, incontri con personaggi importanti... Insomma, dentro la cultura e fuori i barbari».