Corriere della Sera, 28 aprile 2019
La battaglia per le mucche francesi
Nella macelleria di Epinay sur Orge, a mezz’ora di treno a Sud di Parigi, Cédric Neveu esibisce il primo premio che la «Confraternita gastronomica dei vichinghi del bosco normanno» ha voluto attribuire nel 2019 alla sua «terrina del filibustiere». Poi mostra la maglietta che i clienti per solidarietà gli hanno comprato a decine, con la scritta «Sono macellaio, allevatore, formaggiaio, libero di mangiare carne e vi mando al diavolo».
Nella notte tra sabato e domenica 2 settembre il macellaio Cédric è stato svegliato da un rumore molto forte. «Abitiamo sopra il negozio, ho pensato ai ladri o a una ragazzata perché in quei giorni c’era la festa del paese con il Luna park. Sono sceso e ho visto le vetrine rotte, pietre grosse così e la scritta stop spécisme fatta con la vernice gialla. Non sapevo bene che cosa volesse dire, poi ho capito che era un’azione dei vegani».
La Boucherie du Parc è una delle tante macellerie attaccate nei mesi scorsi dai militanti animalisti radicali nei dintorni di Parigi, a Lille nel Nord della Francia e a Montpellier nel Sud. Pochi giorni fa il tribunale di Lille ha condannato a 18 e 15 mesi di carcere (con la condizionale) due militanti anti-specisti che avevano dato fuoco a ristoranti e danneggiato macellerie.
Città contro campagna La lotta in favore dei diritti degli animali, che esiste in tutto l’Occidente, in Francia assume proporzioni e conseguenze più importanti anche perché i prodotti delle fattorie sono nel cuore dell’identità francese. A parte i famosi 246 formaggi evocati da De Gaulle, la Francia è la prima potenza agricola d’Europa (73 miliardi di euro nel 2018, davanti ai 56 della Germania e ai 51 dell’Italia) e gli agricoltori francesi sono i più grandi beneficiari degli aiuti della Pac (9 miliardi l’anno), la politica agricola comune europea. Ma l’agricoltura francese oggi attraversa una crisi economica, politica e filosofica.
Economica perché gli addetti diminuiscono ogni anno, intorno al 2 per cento (erano 448 mila nel 2018). Guadagnano in media 1.250 euro al mese e tutti dicono che se non ci fossero gli aiuti europei della Pac non potrebbero sopravvivere.
Una crisi politica, perché mai come in questi mesi si è approfondita la spaccatura tra città e campagna, una divisione che ha contribuito alla nascita della rivolta dei gilet gialli. La Francia ha in Emmanuel Macron il più urbano dei suoi presidenti, certo molto lontano da Jacques Chirac e dalla sua predilezione per la testina di vitello da mangiare nell’amata, verde Corrèze.
L’agricoltura, e in particolare l’allevamento che ne è parte, attraversa una crisi anche filosofica, perché la tradizionale visione di Cartesio – gli animali non hanno coscienza e sono solo una macchina animata – è messa in discussione dalle scoperte scientifiche e dagli studi etologici. I filmati delle atrocità nei mattatoi diffusi da associazioni come L214 stanno spostando l’opinione pubblica sulla questione posta da Jeremy Bentham: «Il punto non è: possono ragionare, possono parlare? Ma: possono soffrire?».
In viaggio da Parigi verso il Nord della Francia il colore dominante è il giallo delle sterminate colture di colza. Non c’è spazio per i pascoli, eppure gli allevamenti esistono lo stesso: gli animali sono tenuti al chiuso. La «fattoria delle mille mucche», nata nel 2009 a Drucat, vicino ad Abbeville, è il più grande stabilimento per la produzione di latte in Francia: 880 mucche e 600 vitelli, un camion di latte al giorno.
La «ferme des mille vaches» è diventata il simbolo dell’allevamento industriale, denunciato sia dagli abolizionisti – che invocano la fine del consumo di carne e di latte – sia dai più moderati «welfaristi», che chiedono attenzione per le condizioni di vita, trasporto e morte degli animali. Mille vacche sono poche rispetto alle 95 mila dell’immensa fattoria Almarai in Arabia Saudita o alle 40 mila di Fair Oaks negli Stati Uniti, ma la fattoria di Drucat ha provocato in Francia proteste, manifestazioni e l’impegno del filosofo Alain Finkielkraut, che sulla spada da «Immortale» dell’Académie Française ha inciso il muso di una mucca. Finkielkraut era al fianco della moglie avvocata Sylvie Topaloff quando lei, in tribunale, arringava contro quella fattoria.
Gli abitanti delle città non hanno idea di quello che hanno nel piatto. Se sapessero come è arrivata lì la bistecca di vitello, ci penserebbero due volte...
«Le sembra che stiano male? Le sembra un campo di concentramento?», chiede Michel Welter, direttore della struttura e agricoltore più grande di Francia. «Chi osa fare questo paragone dovrebbe vergognarsi». Il primo impatto è in effetti meno impressionante del previsto. La guida Vincent Crul spiega ai ragazzini in gita scolastica come sono nutrite le mucche, che sono libere di muoversi sotto il capannone e vengono poi munte a turno nella sala rotante. «C’è gente che pensava fosse circolare per centrifugare il latte!», dice Welter scuotendo la testa. «I fanatici diffondono sciocchezze da dieci anni, ci ha rimesso anche la mia famiglia, mia moglie non ha retto alla pressione dei contestatori e ha lasciato Drucat», dice.
Welter rivendica i meriti dell’agricoltura industriale – «tutti possono mangiare a poco prezzo» – assicura che le mucche stanno bene «sotto il capannone, protette dal freddo d’inverno e dal caldo d’estate», e se la prende con «la gente di città». «Mi attaccano preoccupandosi per l’ambiente però tutti sono felici di spendere poco per il cibo, hanno una seconda casa, prendono l’aereo, e pretendono che la vita di campagna sia la fattoria di Heidi».
A pochi chilometri dalla fattoria, Gilberte Wable e Claude Dubois, co-fondatori dell’associazione «Novissen» (acronimo per «I nostri villaggi hanno cura del loro ambiente»), non sono d’accordo. La coppia di pensionati si batte contro quella che chiamano «la fabbrica delle mille vacche», «perché è uno stabilimento industriale, non una fattoria. Le mucche hanno il diritto di pascolare, strutture simili sono dannose per gli animali e anche per la nostra salute, e gli allevamenti così vasti impediscono ai piccoli agricoltori di sopravvivere».
Nell’ultimo romanzo Serotonina, Michel Houellebecq descrive la ribellione disperata, armata e infine suicida dell’amico Ayme-ric, allevatore sopraffatto dalla globalizzazione. «Welfaristi» che cercano di migliorare le condizioni degli animali, ambientalisti preoccupati per l’impatto sul clima, e intellettuali conservatori come Finkielkraut affezionati alla natura ancestrale e carnivora dell’uomo, tutti auspicano il ritorno a un allevamento pre-industriale, di dimensioni ridotte, dove gli animali possano posare gli zoccoli sull’erba e vedere la luce del sole.
Riprendendo la strada verso l’Ovest e la Normandia, ecco l’immagine da cartolina della campagna francese. Campanili alti, colline, pascoli, e le mucche pacifiche che si avvicinano incuriosite verso il recinto. Poco lontano da Rouen, c’è il Moulin de Rebets, l’allevamento di Marie Bils. Originaria di Douai, vicino a Lille, Marie ha cominciato a frequentare da bambina questa incantevole proprietà attraversata da un ruscello. «Nel 2011 ho trasformato la casa di campagna di mio padre in una fattoria con 450 bovini, e ho scelto la razza Limousine per la qualità della carne. La mia attività principale è la genetica, cioè selezione e vendita di riproduttori, e poi la vendita diretta della carne». Marie vive qui con i due bambini che giocano con le mucche «e almeno crescono nella natura», ed è aiutata da un solo dipendente. «Non posso permettermi di assumerne altri. Sopravviviamo grazie agli aiuti della Pac, ma ho la sensazione che a Parigi e a Bruxelles i burocrati non si rendano conto delle nostre vite reali. Basta un ritardo nel pagamenti e siamo in difficoltà».
Quanto alla questione animalista, «cerco di fare vivere le mie mucche nel modo migliore possibile, pascolano per otto mesi all’anno. Rispetto le idee dei vegani, non sopporto invece le azioni violente. L’uomo mangia carne da sempre, è qualcosa di radicato nella nostra civiltà. Detto questo, anche per noi allevatori non sempre è facile. Non posso vedere certe mucche partire per il mattatoio. Allora dico al mio dipendente “mettile tu sul camion, io non voglio saperne”».
Di ritorno a Parigi incontriamo nella sede della sua associazione Brigitte Gothière, co-fondatrice e portavoce di L214 (il nome deriva dall’articolo del codice rurale che definisce gli animali «esseri sensibili»). L214 condanna tutte le azioni violente, compresi gli attacchi ai macellai. Il traguardo a lungo termine è comunque la fine dello specismo, ovvero dello sfruttamento degli altri animali da parte dell’uomo.
Francia, il Paese dei formaggi e del foie gras. Francia, il Paese dei diritti (umani). L214, che ha mostrato le immagini terribili dei mattatoi, insiste sul secondo aspetto. «La nostra sfera di considerazione morale dovrebbe ormai estendersi, dagli uomini, a tutti gli esseri viventi che come noi sono in grado di provare emozioni. Anche noi anti-specisti amiamo la gastronomia, ma preferiamo quella non fondata sulla sofferenza».
Su un punto Michel Welter, il patron della fattoria delle mille vacche, e l’anti-specista Brigitte Gothière si trovano inaspettatamente d’accordo: i consumatori non hanno idea di quel che mangiano. Per Welter è il segno dell’abisso scavato tra città e campagna: «Un bambino in visita alla fattoria una volta ha detto al compagno “che scemi questi contadini che stanno a mungere le vacche, io il latte lo compro al supermercato”». Per Gothière, è su questa inconsapevolezza che si fonda il nostro mondo: «Se i francesi avessero presente che cosa è stato il pezzo di vitello che hanno nel piatto, se sapessero come ha vissuto e soprattutto come è morto, ci penserebbero due volte prima di mangiarlo».