la Repubblica, 28 aprile 2019
Biografia di Pietro Citati raccontata da lui stesso
L’anno prossimo compirà novant’anni. Alla vaghezza dei vecchi Pietro Citati preferisce l’asprezza del disincanto. Con cui guida e accompagna le sue preferenze. Il mondo letterario ai suoi occhi si divide tra imbecilli (sono la maggioranza) e coloro che, dotati di un certo talento, difendono ciò che resta della critica e della narrativa. Ben poco a sentir lui, ma ancora sufficiente per arginare il dilagare di personalità inconsistenti e delle fumisterie culturali. Ancora oggi, pratica la scrittura come il migliore dei mondi possibili. Ciò che gli piace lo dice in modo esplicito. Il bello è bello. Del brutto cerca di non occuparsi. Adora il sublime. Ancora adesso continua il suo rito quotidiano: si alza presto, si fa la barba (gesto indispensabile con cui iniziare la giornata), una rapida colazione e poi nello studio: «Qui leggo, prendo appunti, preparo i miei articoli». Quando parla dal divano, color senape del suo salotto, sembra fornire una versione di sé attenuata. Meno superba, meno infrangibile, come se l’uomo solo, nella fragilità degli anni che passano, prendesse il sopravvento sul critico. Ma è solo un attimo, la finestra che si apre sulla distruzione del vecchio mondo e da cui verrebbe l’impulso di gettarsi di sotto, si richiude di scatto.
Ha mai pensato al suicidio?
«Non amo le persone che rinunciano a vivere e a scontrarsi con le difficoltà della vita. So che è un giudizio irritante e presuntuoso. Un amico come Franco Lucentini si gettò nella tromba delle scale; una morte analoga qualche anno prima scelse Primo Levi. Ho un’immensa pena, ma anche rabbia per tutto quello che avrebbero potuto ancora fare, la bellezza di cui ci hanno privato. Conoscevo bene Lucentini, meno Levi. Restai ammutolito davanti a quel tragico episodio».
E poi?
«Pensai a Fruttero, al quale mi legava una grande amicizia. Consolidatasi durante le vacanze estive al mare. Pensai a cosa potesse passare per la testa o nel cuore di quell’uomo: sempre misurato, ironico, settecentesco».
Cosa concluse?
«Siamo maschere che indossiamo in un prolungato carnevale. I momenti autentici sono pochi e ciascuno li trova forse in ciò che sa fare meglio. A un certo punto Fruttero e Lucentini trovarono uno scampolo di autenticità nel sodalizio letterario».
Furono una coppia abbastanza unica. Secondo lei come funzionava?
«Mai nature più diverse si sono combinate così bene. Lucentini scriveva e Fruttero riscriveva completamente, dando al libro la sveltezza necessaria per trasformarlo in un bestseller. Il loro romanzo più bello è stato La donna della domenica. Il libro piacque perfino a Mario Praz. Ricordo il vecchio professore estasiato davanti alle indagini del commissario Santamaria».
Fruttero e Lucentini erano state due colonne dell’Einaudi.
«Traducevano e scovavano con competenza i nuovi libri. Non credo che fossero così in sintonia con l’ambiente einaudiano. Troppo plumbeo e ideologico. Oltretutto, Giulio Einaudi detestava Fruttero. L’intelligenza unita all’ironia lo spaventavano».
Forse perché non era abbastanza colto.
«Non sapeva niente. Ma sapeva scegliersi gli uomini. E aveva il dono di capire se un libro poteva aspirare al successo. Non è poco per un editore. I suoi difetti sono diventati leggendari, man mano che passavano di bocca in bocca».
Era il principe capriccioso.
«Si era immedesimato nella parte del figliolo del re cui tutto è lecito. Durante certi pranzi infastidiva i commensali – da Fruttero a Manganelli – rovistando nei loro piatti».
Come reagivano?
«Alcuni rassegnandosi, altri come Manganelli potevano diventare furiosi. Ho cenato tantissime volte con Manganelli, sempre nello stesso ristorante dalle parti di Porta Pia, sempre nelle stesse posizioni. Guardarlo mangiare era uno spettacolo circense. In quegli istanti, crollasse il mondo, c’erano lui e il piatto. Un rapporto furioso, lo stesso che coltivava per i libri».
Dove vi siete conosciuti?
«Alla Garzanti dove ero andato a lavorare nei primi anni Sessanta. Un giorno Manganelli si presentò con una sua opera pubblicata da Feltrinelli, Hilarotragoedia, era il suo esordio come scrittore. Fino a quel momento avevo pensato che fosse un polveroso professore, scoprii la sua voracità narrativa».
Si dice che su quell’opera si fosse scatenata l’ira di Gadda.
«Lo inseguì insultandolo convinto che egli avesse scritto una parodia della Cognizione del dolore».
Ed era vero?
« Mah, qualunque cosa avesse scritto, per quanto bella, non era misurabile con Gadda. A Livio Garzanti – l’uomo più isterico che abbia mai conosciuto – riconosco il merito di aver compreso la grandezza de Il pasticciaccio».
Anche Gadda era un campione di nevrosi.
«Goffredo Parise che abitava non distante da lui, sulla collina di Monte Mario, e gli era molto amico, ne aizzava i sentimenti più riposti. Poteva, che so, parlargli dell’omosessualità nel mondo animale per vedere Gadda arrossire come una fanciulla».
Lei è stato tra gli amici più stretti di Gadda.
«Fu una presenza dominante nella mia vita. Si insiste troppo sulla sua nevrosi. Ma ogni scrittore è a suo modo un nevrotico. Solo i grandi, come lui o come Virginia Woolf, hanno saputo trasformarla in stile. E poi sapeva ridere di se stesso».
Qual è il ricordo più intenso che ha di lui?
«Negli ultimi giorni di vita mi chiese di leggergli alcune pagine dei Promessi sposi. Ci alternammo io, Gian Carlo Roscioni e Ludovica Ripa di Meana. Stava mezzo moribondo nel letto mentre gli leggevo il capitolo in cui Renzo e Lucia chiedono a Don Abbondio di sposarli. E mentre mi inoltravo nella lettura sentivo Gadda ridere e imporporarsi, col suo pancione che sotto il lenzuolo sussultava».
C’è scrittore italiano del ’900 paragonabile a Gadda?
«Non c’è, il solo che gli si avvicina ma gli resta decisamente inferiore è stato Italo Calvino. Italo fu un amico della giovinezza. L’ho conosciuto quando avevo diciassette anni e lui ventitré. Era ironico, curioso, disponibile. Col tempo il suo carattere si fece più impenetrabile. Ma l’amicizia non venne mai meno. Credo fui tra gli ultimi a vederlo prima che l’ictus se lo portasse via. Tre giorni prima della tragedia venne a cena nella mia casa di Roccamare. Anche lui passava lì le estati, come del resto faceva Fruttero. Sicché si stava spesso insieme».
Quella sera cosa vi diceste?
«Stava finendo la stesura delle Lezioni americane. In quel periodo della fine di agosto lo vidi spesso stanco e ossessionato dal lavoro. Ma quella sera mi sembrò felice, perfino tenero. E, cosa incredibile, loquace. Espresse una singolare visione della letteratura, dividendo il campo tra gli urlatori (Mario Soldati in testa), i mezzi urlatori (cui io appartenevo) e i taciturni (tra cui si metteva). Fu spiritosissimo. E la morte fu gelosa di quella vis comica».
A 17 anni lei cosa faceva?
«Facevo l’ultimo anno di liceo. Sono nato a Firenze ma a due anni mi trasferii con i miei a Torino perché mio padre era direttore di una compagnia della Lloyd adriatico. Poi andai alla Normale di Pisa. Torino resta la mia città mentale».
Nel senso?
«La sua forma è un misto di rigore matematico e di follia. Sembra razionale e non lo è. Un po’ come la letteratura che viene dal Piemonte. In quegli anni frequentai Elémire Zolla. Viveva alla periferia di Torino. Ogni volta che andavo a trovarlo lo vedevo disteso su un vecchio sofà con un libro in mano. Era la sua postura naturale: pigrizia e letteratura. Un giorno in treno gli parlai in maniera orrenda di Maria Luisa Spaziani e lui rideva, rideva. E allora gli chiesi cosa c’era di tanto comico. Maria Luisa è mia moglie, rispose di gusto».
Rideva perché forse si stavano lasciando.
«La lasciò per Cristina Campo, con la quale visse a Roma nel quartiere Aventino. Lei in un albergo lui in un sottoscala».
Si sono amati?
«Penso di sì anche se alla fine non facevano che litigare. Cristina aveva nervi e cuore fragilissimi e una prosa sublime. Gli impedonabili è un libro avvincente. La sera in cui era agonizzante mi telefonò Zolla: Vittoria (Vittoria Guerrini era il suo vero nome) sta morendo, mi disse con un filo di voce. Da tempo si erano separati, ma l’affetto era rimasto intatto».
Accennava alla Normale, ci andò per studiare cosa?
«Filologia classica con Giorgio Pasquali, un genio per le vaste conoscenze che possedeva. Arrivai a Pisa nel 1947. Fu un periodo di studi intenso. C’erano Delio Cantimori, Aldo Capitini. Pasquali ebbe un incidente mortale. Fu investito da una motocicletta. E questo ahimè mise fine al nostro rapporto».
Lo dice come se si fosse chiusa un’opportunità.
«Con lui certamente. Anche se ebbi la fortuna di incontrare Gianfranco Contini. A quel tempo insegnava a Friburgo e venne alla Normale per dei seminari. Fu un filologo immenso ma secondo me contagiato dall’università».
In che senso?
«Dai meccanismi burocratici e accademici. Le cose più belle le ha scritte da giovane. Penso che l’università non gli abbia fatto bene. E credo ne fosse consapevole. Quando tornò in Italia gli chiesi se era animato dalla stessa forza interiore con cui era partito per la Svizzera. “Sì Citati è molto bello combattere per gli ideali, ma si combatte sempre nella merda”. Mi colpì quel lessico che poco gli somigliava e che denunciava però una grande delusione»
Dopo la Normale cosa accadde?
«Andai a fare il lettore di italiano all’università di Monaco. Imparai il tedesco e la città era piacevole e ordinata».
Chi frequentava?
«La persona più interessante che conobbi fu Ingeborg Bachmann. Scriveva dei racconti meravigliosi. Un po’ meno mi sarebbero piaciuti i suoi romanzi. Allora viveva con Max Frisch, uno scrittore che valeva poco. Conobbi anche Günter Grass. E non mi piacque per niente. Con la sua smania di grande scrittore».
Non lo è stato?
«Di tutta la sua opera salverei solo le prime cento pagine del Tamburo di latta».
È molto esigente con gli altri. Lo è anche con se stesso?
«Mi interesso pochissimo a me stesso. Per me contano solo le cose oggettive».
Non dà questa idea.
«Che cosa intende?».
Che sembra, al contrario, molto interessato a se stesso.
«Sono interessato ai miei ottantanove anni che sono tanti».
Intende dire che si occupa della sua vecchiaia?
«Me ne occupo nel senso che mi sento un sopravvissuto. I più cari amici non ci sono più. Ma come si dice: il problema non è di quelli che se ne vanno ma di chi resta».
Si è mai chiesto cosa resterà dei suoi libri?
«Non mi interessa assolutamente. Se scrivo, se continuo a farlo, cerco di cavarmela meglio che posso».
Come giudica il lavoro di critico letterario?
«Una professione estinta, come certe specie animali».
Non le manca la forza di proseguirla.
«Quasi per inerzia».
Chi è il critico?
«Qualcuno che si installa nel corpo di un altro. Vive e si alimenta della sua carne e del suo sangue».
È un’immagine inquietante.
«Non ne conosco di serene».
E la letteratura, cos’è la letteratura?
«Adorazione. Senza adorazione per lo scrittore e senza l’idea che tutto il mondo sta in lui la letteratura non esisterebbe. È chiaro che la venerazione non è detto che porti alla verità, ma alla passione sì. Senza passione non si fa né si legge letteratura».
Un tempo il suo lavoro di critico non disdegnava la stroncatura. E ora?
«Stroncare è un’attività per giovani. Invecchiando ho capito che è un esercizio inutile. Un cattivo libro va ignorato, perché perdere tempo a occuparsene?».
Tutto il mondo di Citati passa attraverso i libri. Si riconosce?
«Pienamente. E la cosa è comprensibile. Leggo libri da quasi ottant’anni».
Non desidera a volte leggere direttamente la realtà?
«Avrei gli occhi per farlo. Ma non ho la forza del racconto. Non posso affrontare la realtà direttamente come farebbe un narratore. Posso riuscirci solo sulla base di un racconto già scritto. Ho immaginazione per gli oggetti, meno per le storie».
Ha mai fatto analisi?
«Sarebbe inutile su un carattere come il mio e poi mi seccherebbe essere interpretato come fossi un libro».
So che ha avuto dei periodi di depressione, come l’ha combattuta?
«Fu un solo lungo periodo tra i quaranta e i cinquant’anni. Brutto e triste. Mia moglie era molto preoccupata. Ho combattuto la depressione con i farmaci e con la scrittura. Imparando a difendermi».
Si difende anche da questi tempi?
«Anche da essi. Non vorrei avere un tono troppo giudicante. Ma in questo tempo della discordia non riesco a vedere una via di uscita».