la Repubblica, 28 aprile 2019
Che cos’è la danza
Quando avevo circa dodici anni, l’Alvin Ailey American Dance Theater venne in città e mia madre mi portò a vederlo. Era una serata solo per noi due e io ero un po’ riluttante, perché sospettavo si trattasse di un esercizio di emancipazione razziale, un effetto che potevo ottenere molto più facilmente rimanendo nella mia stanza ad ascoltare Monie Love e a guardare a ripetizione il video di Word Up dei Cameo. In generale ero diffidente verso questo genere di emancipazione, perché sembrava puntare sempre nella stessa direzione, ovvero verso le arti presunte “nobili”: teatro sì, televisione no; opera lirica sì, beat box no; balletto classico sì, body popping no. Nessuna mamma giamaicana sarebbe mai corsa nella stanza della figlia agitando una cassetta e gridando: «Hai sentito Push It? L’hanno fatta delle ragazze newyorchesi bravissime!». Ma io non riuscivo a immaginare che artisti che si esibivano su un palcoscenico legittimo potessero avere per me la stessa rilevanza che avevano i movimenti pelvici delle Salt-N-Pepa. Andammo, e fu un’estasi. Nulla può prepararti alla totalità di Alvin Ailey: la bellezza uditiva, visiva, fisica, spirituale. Fino a quel momento la maggior parte delle mie escursioni nella cultura alta ( di solito gite scolastiche) mi erano sembrate un furtivo addestramento per una vita di esperienze estetiche adulte parzialmente soddisfacenti: belle canzoni ma trama assurda, o buona recitazione ma testi incomprensibili di quattro secoli fa, e così via. Poter ascoltare il gospel mieloso e incalzante di Wade in the Water e guardare simultaneamente quelle braccia muscolose, idealizzate – in ogni sfumatura di marrone – che salivano lentamente e assumevano la forma di tante anfore antiche! Il paradiso. E poi, sotto la regalità e la compostezza del torso, oltrepassata la vita, continuavano i movimenti pelvici di Mtv, chiudendo il cerchio della tradizione musicale africana del botta e risposta. Dovunque ti giravi trovavi piacere sensoriale. Invece degli sdolcinati costumi d’epoca dello Schiaccianoci c’erano abiti lunghi ordinari, fluttuanti, di un bianco ecclesiale che ti tramortiva contro tutta quella pelle scura luccicante, e profumava di Sud degli Stati Uniti, un luogo mitico che avevo visitato solo in libri e canzoni. Mi resi conto che quello che stavo guardando non era né cultura alta né cultura bassa, ma un’unione perfetta delle due cose. Il vocabolario onnicomprensivo di Ailey includeva i corridori delle gare d’atletica e le ragazze seducenti e assertive dei video musicali, gli ondeggiamenti dei pastori protestanti e gli ancheggiamenti delle sale da ballo e del carnevale caraibico. Una diaspora di movimenti, insomma. Tutte le dita erano tese verso il cielo, tutti i salti sembravano non avere peso, l’intera logica tendeva verso l’alto. «Didn’t my Lord deliver Daniel well?», chiedeva il coro del gospel, il mio Signore non ha forse salvato Daniel? E poi estendeva la domanda dal biblico al politico: «Then why not every man?», e allora perché non tutti gli uomini? Liberazione. Dalle catene, dall’oppressione, dagli stereotipi e dall’identificazione impropria, dal pregiudizio, da ogni forma di vincolo e limitazione, perfino quella imposta dalla gravità. Verso la libertà. ( Noto che nella foto il pastore è l’unico ad avere l’ingombro delle scarpe). Per me, tutta la danza è un discorso sulla libertà. Nella danza nera, per ovvie ragioni, questo discorso non è solo figurativo ma anche letterale. Cosa che rende impossibile non vedere questa fotografia ( quella pubblicata in questa pagina, ndt) come storia, oltre che come coreografia, anche se è un’immagine in cui il “corpo nero” non è solamente uno spazio di dolore, sofferenza e sfruttamento – come viene spesso raffigurato oggi – ma anche il luogo di una gioia straordinaria. Nel punto radioso in cui gli archetipi (“il corpo nero”) diventano individui e poi icone, scorgo il vescovo Richard Allen, Marsha Hunt e Joseph Cinqué che saltano nella storia, o il reverendo Al Green, Lauryn Hill e Bill T. Jones che ascendono verso il sublime. E tutte le primavere, ora che vivo a New York, non devo andare molto lontano per avere un’altra visione dei sublimi piaceri di Ailey. ?