la Repubblica, 28 aprile 2019
Come si diventa martiri e santi
La fila di copti ed evangelicali, siriaci e protestanti, ortodossi e cattolici uccisi mentre pregavano si è allungata con gli eccidi di Pasqua nello Sri Lanka: per tutti è stato evidente ed immediato parlare di “martiri”. Parola di origine greca che indica i testimoni della fede segnati dalla mitezza di Cristo, a prescindere da chi li ammazza, e che raggruppa una “nube” di individui: nella tradizione biblica i nomi di persona hanno infatti pregnanza perché hanno tutti a che fare col Nome impronunciabile di Dio. Uno dei libri del profeta Isaia inizia con la visione della redenzione (Is 56,5) in cui a tutti i giusti sarà dato «un posto e un nome» (“Yad Vashem”, come recita l’epigrafe del museo della Shoah di Gerusalemme): perché chi non ha nome è davvero perduto. Gesù è parte di questa tradizione: i suoi discepoli più stretti pregano «sia santificato il tuo Nome» e dei loro nomi la tradizione evangelica conserva memoria nitida. La comunità cristiana – anche dopo il distanziamento dall’ebraismo – associa ai nomi di quegli “apostoli” morti per la fede o nella fede anche i nomi degli altri martiri, di cui si conoscono scritti (ad esempio Ignazio o Policarpo) o di cui si tramanda il racconto della morte. Una narrazione che si fa genere letterario specifico per documentare il ripetersi nei martiri della mitezza di Gesù (e che ha un parallelo ebraico nel Midrash Eleh Ezkerah sul martirio dei dieci rabbini ai tempi di Adriano). I nomi dei martiri cristiani entrano nella liturgia (il canone romano li ripete in una prima serie che inizia «Lino, Cleto, Clemente, Sisto, Cornelio, Cipriano ecc.» e una seconda che finisce con «Agata, Lucia, Agnese, Cecilia, Anastasia»). Quei nomi poi entrano in un calendario che ne fissa la memoria del loro «natale al cielo», e successivamente in una sequenza resa più densa dal fatto che accanto ai martiri si aggiungono i santi individuati dal culto delle chiese o dai concili, prima che il papato avocasse a sé l’atto di canonizzazione. Nasce così il “martirologio”: cioè un calendario di martiri e santi. Ne conosciamo dal III- IV secolo uno siriaco, da cui derivano quelli greci di Nicomedia e quelli che daranno origine al Synaxarion della chiesa greca e al Menologion della Russia. La tradizione italo- gallica produrrà altri martirologi: quello del V secolo attribuito a Girolamo e poi i suoi rifacimenti, sempre più attenti a ricordare con ogni nome un pezzo di vita. Come per molti altri aspetti la riforma tridentina segnerà una svolta decisa: cancellerà questi patrimoni per imporre un martirologio “romano” uniforme, promulgato da Gregorio XIII nel 1584 sulla base del lavoro storico di Cesare Baronio – e poi rimaneggiato dai successori con l’esigenza di espungere le figure leggendarie ed integrare con i nuovi nomi e le loro vite ogni data. Esigenza che percorre la chiesa cattolica fino al concilio Vaticano II, che dispone una riforma: il nuovo martirologio verrà promulgato nel 2001 con 6.538 nomi impilati sui 365 giorni, per accogliere le migliaia di canonizzazioni e beatificazioni di Giovanni Paolo II. Una abbondanza che alla fine mette in evidenza solo le canonizzazioni rinviate anche in presenza di un martirio plateale: ome quello di monsignor Romero, ucciso all’altare a San Salvador nel 1980; o quello dei trappisti di Tibhirine, decapitati nell’Algeria della guerra civile nel 1996. Già allora era però evidente che il martirologio non poteva più essere quello che era stato: troppo grande e insieme troppo piccolo per accogliere quella nube di uccisi del Novecento che lo stesso Wojtyla, in una liturgia toccante e imbarazzante del 2000 davanti al Colosseo, indicò come «testimoni». Un imbarazzo che mostrava come ci fossero tre fatti contro i quali non valet argumentum. Il primo è che davanti al martirio il popolo di Dio – al quale perfino il diritto vigente della chiesa cattolica riconosce un ruolo – si muove in virtù del sensus fidei. Sia nel cattolicesimo, dove papa Francesco ha sanato le omissioni e statuito una e “quarta via” della santità; sia fra le chiese, che ormai considerano Elizaveta Fedrovna o Dietrich Bonhöffer o Martin Luther King o Oscar A. Romero parte della propria tradizione. Giacché – ed è il secondo fatto – gli uccisori di cristiani (siano atei o di altra ideologia religiosa) non distinguono in base alla chiesa o alla distanza teologica fra le chiese. Uccidono sulla base di una equivalenza ideologica – cristianesimo uguale Occidente – che vedono solo loro e quel mondo ultraconservatore pronto a intestarsi la violenza per fini politici o di odio politico. Ma quei martiri che sono di tutti, credenti e non credenti, non chiedono solo alle chiese di avere un martirologio ecumenico, come quello del World Council of Churches a cui lavorano anche i monaci di Bose. Chiedono che sia chiarito quanto la divisione cristiana (che di martiri reciproci ne ha creati parecchi, e pare disposta a ricominciare in Ulster o Ucraina) sia parte dell’odio che intossica il mondo e cos’altro serva per una comunione piena che riconosca il Cristo nello stesso calice, nella stessa parola e nella carne del povero. Infine il terzo fatto: c’è un martirio che vede cristiani uccisi non in odio “alla fede”, ma a un senso di giustizia nutrito dal vangelo, come si capisce pensando alla storia di Vittorio Bachelet, di Rosario Livatino, di Piersanti Mattarella e di tanti altri. E si prolunga nelle migliaia di credenti, cristiani non cristiani, che subiscono la violenza con quella mitezza consapevole che è il tratto “cristico” prima ancora che cristiano del martirio. Il martirologio dell’umanità in cerca di giustizia compone una sorta di libro dei libri che è di tutti e di nessuno: e che misura ogni persona con la mite severità del sangue innocente sparso per niente, come sempre.