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 2019  aprile 27 Sabato calendario

Intervista a Mario Cucinella

Mario Cucinella, architetto, classe 1960, ha curato l’anno scorso il Padiglione Italia della Biennale dell’Architettura offrendo una narrazione che andava dai piccoli borghi alle grandi zone agricole: una parte minore nel Dna dell’Italia più autentica, quella composta dalle piccole realtà. Cucinella ha lavorato a lungo con Renzo Piano sul tema delle periferie, e sostiene che l’architettura «non deve essere un prodotto autoreferenziale, ma un sistema per fare abitare meglio le persone». Fra i suoi progetti più recenti, la Torre Unipol a Milano, la Città della Salute di Sesto San Giovanni, il nuovo ospedale S. Raffaele a Milano, il Museo Etrusco della Fondazione Luigi Rovati, le due torri di Vienna Viertel Zwei.
Architetto, nel suo studio lavorano 95 persone, fra cui un’unità che si occupa solo di ambiente e un sociologo. Perché questa formazione?
«L’architetto deve saper intercettare i bisogni della gente. Le faccio un esempio. Una ricerca del Professor Mario Abis sul tempo libero delle donne ci ha spiegato che questo equivale a zero. Ecco che l’architettura può fare qualcosa per loro creando spazi misti, come un ufficio dotato di un asilo gestito dalle altre mamme. Oppure, a proposito di clima progettare (lo abbiamo fatto a Bologna) uno spazio fresco gratuito e pergolato che funziona con energie rinnovabili. Vede, l’architetto non deve ragionare solo con la tecnologia, ma stringendo un nuovo patto con il passato, quando l’energia, semplicemente, non c’era e poi lavorare sul patrimonio esistente”.
Cioè?
«Si parla tanto di inquinamento dimenticando che la gran parte dello smog deriva da caldaie vecchie che vanno sostituite. Bisogna cominciare dalle piccole cose rispettando chi abita quegli edifici costruiti o invecchiati male».
Sta parlando delle periferie, uno dei temi a lei più cari?
«Intanto aboliamo il termine periferie, la città è una, dimentichiamo la serie A e la serie B. L’unico modo per migliorarle è attuare una politica di ascolto. E il solo a parlare della povertà edilizia nel modo giusto è stato Papa Francesco avendo chiaro che se vivi in case mal costruite ne risente anche la tua salute. A questo punto la politica deve capire che i costi del welfare potrebbero anche essere superiori a quelli di una ristrutturazione degli immobili dal punto di vista energetico».
Ma qual è il punto di partenza vero dell’architettura?
«Sempre l’ascolto della gente. E dovrebbe essere lo stesso per la politica. Io ho lavorato molto nelle zone dell’Emilia colpite dal terremoto. Interrogare i cittadini sui loro bisogni è stato fondamentale. Chi avrebbe pensato, per esempio, che le bambine avevano più di ogni altra cosa bisogno di una scuola di danza, perché ai ragazzini basta un pallone? Un’altra soddisfazione è stata quella di costruire a San Felice sul Panaro una casa per persone con multi handicap e in un altro piccolo paese una biblioteca in un giardino con un micro spazio per il coworking. Doveva guardare in faccia quelle persone, la loro gioia nello scoprire che qualcuno si stava prendendo cura di loro». 
Il suo studio ha costruito una scuola nella Striscia di Gaza, insieme ad un gruppo di giovani (ArCò). É diverso progettare all’estero?
«La sfida non cambia, il viaggio dell’architetto comincia sempre nella nebbia ed è molto ansiogeno. Pian piano si dirada e emergono le cose. Nella Striscia di Gaza abbiamo costruito facendo a meno di tutto, dall’elettricità in su. Per raffreddare l’aria abbiamo usato l’antica tecnica dei pilastri vuoti: partono dalle cantine diventando camini per veicolare ai piani alti la frescura. La soddisfazione più grande però la ricavi costruendo edifici pubblici, dal museo all’asilo come quello che abbiamo realizzato a Guastalla, una balena invasa dalla luce».
Detto ciò, come sta l’architettura in Italia?
«Non bene. Non si fanno abbastanza gare, non c’è la cultura del bando, manca addirittura il format. É proprio il sistema Paese che non funziona, ognuno fa come gli pare e così anche le imprese falliscono, vengono polverizzate. All’estero è molto diverso. Guardi cos’è successo per Notre-Dame. Il giorno seguente al disastro il governo ha annunciato una grande gara per ricostruirla. Noi abbiamo perso perfino la grande occasione della ricostruzione del post-terremoto, che ci avrebbe permesso di esportare una marea di conoscenza all’estero circa il recupero di monumenti e opere d’arte. Invece dopo tre anni il simbolo di quella catastrofe è un paese come Camerino ridotti al fantasma di sé».
Deluso dalla professione?
«Assolutamente no, resta uno dei mestieri più affascinanti al mondo, anche se in Italia è ucciso dalla burocrazia e dall’assenza di una regia collettiva. Per fortuna ci sono committenti privati che investono parecchio nell’architettura avendo capito che è una delle poche leve capaci di cambiare il mondo».