Nomi enormi ai quali, il 28 luglio a Parigi, potrebbe unirsi quello dell’uomo venuto dal Kenya.
«Arrivo subito», si presenta in hotel, con il suo timido italiano imparato in gruppo. Prima dell’intervista va a cena, pasto leggerissimo, molta frutta, «e poi andrò a dormire, prestissimo». Ai chilometri di gara ne aggiunge 20-30 ogni giorno. A Kufstein, dopo la prima tappa, è tornato in albergo in bicicletta. Quelli di Sky questi piccoli gesti li chiamano marginal gains, guadagni marginali: non lasciare al caso nulla, guadagnare anche poco ma costantemente, e sudare tantissimo.
È la vita dei corridori, Froome, ma la vostra di più.
«Siamo stati in ritiro sul Teide, a Tenerife, una ventina di giorni, e là ho lavorato duramente con l’obiettivo di soffrire, soffrire il più possibile».
Poi ha inserito a sorpresa nel suo programma il Tour of the Alps e in Italia è girata una voce: vuoi vedere che Froome vuole tornare al Giro. Vuole?
«Quest’anno non è possibile ma presto vorrei tornarci. L’obiettivo del quinto Tour è troppo importante, anche per il valore storico che avrebbe, per l’eredità che lascerei, accostarmi a quei grandi del passato non avrebbe prezzo. Per questo devo sacrificare altre ambizioni.
Portare il numero 1, per un corridore, è sempre importante. Al Giro lo avrà un mio compagno, comunque. Sarà dura però viverlo alla tv».
Come sta in questo momento?
«Non male, sono in una condizione simile a quella dello scorso anno, e questa era una gara speciale, con tappe brevi ed esplosive, molto imprevedibili, molto allenanti».
Ha rimpianti per i Tour 2014 e 2018, persi in modi diversi, ma comunque persi? Sarebbe già a quota cinque e forse a sei.
«Nel 2014 caddi nella tappa del pavé e mi ruppi un polso, ma il ciclismo è così, per prima cosa devi portare la bici all’arrivo. Lo scorso anno abbiamo fatto un grande Tour e Geraint Thomas, il mio compagno, ha dimostrato di averne di più: abbiamo comunque battuto grandi campioni come Dumoulin e Roglic, insieme, di squadra».
A proposito di squadra, questa è la sua ultima gara con lo sponsor Sky sulla maglia. Da maggio subentrerà Ineos, nuove maglie e nuovi colori.
«Ho trascorso quasi tutta la mia carriera con Sky, è stato uno sponsor incredibile, che occupa già adesso un posto importante nella storia del ciclismo. Tanta gente, in Inghilterra soprattutto, ha iniziato ad andare in bici grazie alle nostre imprese».
Ha già visto la nuova maglia?
«Sì, è molto bella, ma non posso svelare di più, la vedrete al Tour de Yorkshire, dal 2 maggio».
Non trova ci sia una contraddizione tra le vostre battaglie per l’ambiente di un anno fa (la campagna Ocean Rescue contro la plastica negli oceani) e il fatto che Ineos sia la terza più grande azienda chimica al mondo? In più, in Yorkshire un gruppo di ambientalisti inscenerà un sit-in di protesta contro gli abusi ambientali di Ineos.
«Non so che pensare, se non che gli affari sono affari, Ineos è uno sponsor importante che ci permette comunque di restare ai nostri livelli. Su inquinamento, riscaldamento globale e ambiente non so abbastanza per dire se il mondo sia in pericolo o meno. La bicicletta però può essere un fattore di cambiamento».
Un anno fa, in questo periodo, era nel pieno della battaglia per dimostrare la sua innocenza nel caso salbutamolo, esploso durante la Vuelta 2017. Poi venne assolto in pratica perché non si riuscì a dimostrare la sua colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio. Quella vicenda resterà una macchia sulla sua carriera?
«È stato l’anno più difficile, non avrei mai pensato di trovarmi dall’altra parte, a difendere me stesso in quel modo. Sono molto felice che questo periodo sia finito, la verità è stata mostrata alla fine, i fatti spiegati e si è stabilito che non avevo fatto niente di sbagliato.
Dentro quella tempesta sono riuscito comunque a correre e vincere il Giro. Questo resterà, alla fine».
L’Uci ha messo al bando il Tramadol, un forte antidolorifico - non vietato fino a marzo - che dilagava in gruppo, soprattutto tra le squadre del Nord Europa.
Pensa sia stata una decisione positiva?
«Certamente un passo nella direzione giusta. Io però non l’ho mai utilizzato».
Questa stagione ha finora portato alla luce giovani fenomeni come Van der Poel, Campenaerts ha tolto il record dell’ora al suo ex capitano Wiggins, le medie sono molto alte e diversi record storici in salita, centrati negli anni bui da corridori certamente dopati, stanno crollando. Verso quale ciclismo stiamo andando?
«Questi ragazzi sono impressionanti per quanto talento abbiano. I tempi sulle salite si stanno abbassando perché migliorano molte cose, l’alimentazione, l’allenamento, le metodologie, le biciclette. Questo sport cambia in meglio, diventa più aperto a grandi imprese».
Come la sua, quando scattò sul Colle delle Finestre a 80 km dall’arrivo e vinse il Giro 2018.
«Una giornata che non dimenticherò mai».
Una bella rivincita su chi accusava Sky di saper correre solo in un modo, con gli occhi sui computer di bordo e basta.
«Quel giorno fu tutto o nulla, avevo perso molto e dovevo rischiare, in fondo ero venuto al Giro per vincerlo e avevo lavorato per mesi, fatto ricognizioni, impegnato risorse della squadra per conquistare la maglia rosa. Non sapevo se attaccando a 80 km dall’arrivo sarei riuscito ad arrivare. Ma dovevo provarci. Era folle, ma inseguire spesso è molto più dispendioso di attaccare. Ci fu metodo nella follia. Il Giro è così, è molto più difficile rispetto al Tour, perché non sai mai quando è il momento giusto per andare, è facile sbagliare. Il Giro 2018 è stato più difficile di uno qualunque dei quattro Tour che ho vinto».
Cosa farà dopo il ciclismo?
«Semplicemente non ci sarà un dopo: resterò con qualche ruolo in questo mondo che mi ha dato tutto».
Fino a che età vuole correre?
«Finché il corpo non dirà il contrario e finché mi divertirò».
La gara in linea di Tokyo 2020 può essere il grande obiettivo di fine carriera?
«Certamente, ma lo sarà per molti con le mie caratteristiche, come Nibali e altri. Non sono mai stato corridore da gare di un giorno ma mi piacerebbe vincerne almeno una, quella olimpica».