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 2019  aprile 27 Sabato calendario

Intervista a Michele Santoro

La mattina Michele Santoro scende dai Parioli, dove abita, e raggiunge l’ufficio in via delle Mantellate, a fianco del carcere romano di Regina Coeli. «Vedo le mamme in fila con i figli per mano, mentre aspettano di portare i bimbi a incontrare i loro padri detenuti, e ogni volta mi commuovo». 
La sede della sua Zerostudio’s, al pianterreno di un’ex fabbrica, sembra scelta apposta per stimolare la creatività: ha ospitato l’ufficio di Bernardo Bertolucci e l’atelier di Mario Schifano, che dipingeva circondato da monitor sintonizzati sulle tv di tutto il mondo. A giudicare dai volti, l’età media dei collaboratori non supera i 30 anni. Chissà a quali produzioni televisive stanno lavorando: da giugno 2018, dalla fine di «M», la fiction sul caso Moro trasmessa dalla Rai, il conduttore non compare in video. È sparito pure dai giornali. Forse perché ne sta progettando uno suo, anche se la testata risale al 1924: L’Unità. «Ho presentato un’offerta al proprietario, il costruttore Massimo Pessina». 
Ma il virus della tv gli resta in circolo. L’ho intuito da un episodio che mi ha raccontato a registratore spento, accaduto il 10 gennaio 2013 durante la famosa puntata di «Servizio pubblico» su La7 (8.670.000 telespettatori, 33,58 per cento di share, Rai e Mediaset umiliate in prima serata), con lui che si rifiuta di stringere la mano a Silvio Berlusconi e il leader di Forza Italia che, al momento di appoggiarvi le terga, spolvera la poltroncina su cui stava seduto Marco Travaglio. «Poco prima, in una pausa pubblicitaria, il Cavaliere mi aveva detto: “Michele, ma come ci stiamo divertendo!”». 
Perché si è candidato per il cda Rai? 
«Per costringerli a scegliere persone migliori di me. Ora la Lega ha presentato un’interrogazione alla Camera contro un mio programma che non c’è. Ho scritto al presidente Roberto Fico. Manco mi ha risposto. In Italia si fa così». 
Ma il direttore di Rai2 l’ha incontrato. 
«Con lui ho parlato del più e del meno. Subito hanno rivisto in Santoro lo spettro del passato. Carlo Freccero mi ricorda una definizione di Giancarlo Pajetta: “È contemporaneamente un opportunista di destra e di sinistra”. Mi limito a gestire il mio sito, un laboratorio che sonda gli umori della Rete e produce contenuti. Finché potrò permettermelo». 
Anche lei si è convertito a Internet. 
«Quando ideai “Tempo reale”, il Web contava appena 10.000 utenti. Con la Olivetti sperimentai il rapporto fra computer e televisione. Una volta per andare in onda dovevi saper ballare, cantare, presentare. Oggi un ragazzo di borgata diventa una star di YouTube interpretando solo sé stesso». 
Gli basta uno smartphone. 
«Milioni di lavoratori cliccano per inseguire i loro sogni, alle dipendenze di multinazionali che neanche li pagano. Usano il corpo, come Kim Kardashian. S’improvvisano comici con peti e rutti. Non è che devono saper fare la corsa delle bighe di Ben-Hur. La Rete comanda. La velocità è tutto. La verità non conta. Prevale solo la morbosità». 
Deprimente. 
«Ma la sinistra che predica di riconnettersi alla realtà, ai poveri e alle periferie non tiene conto di questa rottura. Ha una visione cattolicheggiante del marxismo, e glielo dice uno che Karl Marx non l’ha mai rinnegato: fatte le debite proporzioni, devo pensare a Gesù Cristo per trovarne un altro come lui». 
Sbaglia Nicola Zingaretti, neosegretario piddino, a ripartire dallo ius soli? 
«C’è un vuoto di proposte. Il Pd non analizza i mutamenti sociali provocati dalla Rete. Resta affezionato al welfare verticale, dal centro alla periferia». 
Beppe Grillo ad «Annozero» impazzava sparando su Giorgio Napolitano e Umberto Veronesi. Non sarà che lei ha creato un mostro? 
«Più sei famoso e più devi concedere un eccesso di critica a tutti. Io credo moltissimo nelle istituzioni, ma in Italia non sono più in grado di registrare i cambiamenti. E così la comunicazione surroga lo Stato. Il fenomeno Berlusconi è la tv che si fa partito. Il fenomeno Grillo è la Rete che si fa partito. E i partiti che cavolo facevano nel frattempo?». 
Le piacerebbe un governo M5S-Pd? 
«Di notte non sogno l’incontro Di Maio-Zingaretti. Però non andrei a dire in giro che i 5 Stelle sono uguali alla Lega. Palmiro Togliatti avrebbe osservato che questo è il modo migliore per rafforzare l’attuale governo». 
Nel sondaggio per il premio Stercorario i grillini la posero al quinto posto fra i giornalisti più odiati, dietro ad Alessandro Sallusti e davanti a Gad Lerner. 
«Ragionano per insulti, non su quello che dici. Gli argomenti complessi li disorientano. I politici al potere non mi hanno mai amato». 
Perché ha offerto una ricompensa a un killer affinché uccida Matteo Salvini? 
«Che idiozia. Era solo un commento ironico ai sette modi surreali suggeriti dal vignettista Vauro per sbarazzarsi del vicepremier, il primo dei quali prevedeva di recapitare a Salvini un mega barattolo di Nutella». 
Chi può fermare Salvini? 
«Il buonsenso. Paragonarlo a Benito Mussolini è del tutto inopportuno. Il Duce ha cercato in Africa lo “spazio vitale”. Non ha costruito muri, ma colonie. Questo qui ci fa perdere tempo a parlare di barconi mentre la Libia è in guerra. Intanto arriva la Cina che investe 40 miliardi nel Continente nero. Salvini insegue solo i più beceri che gli danno ragione sui social. Sarò pazzo, ma vorrei un leader che indicasse una prospettiva». 
Il capo della Lega non la indica? 
«Quando voleva uscire dall’Europa, non avendo ancora capito che la maggioranza degli italiani intende restarci, gli chiesi: scusa, e dopo? “Anche su una zattera, purché fuori dall’Ue”. Testuale». 
Mi dia una definizione di Berlusconi. 
«Uomo di straordinaria intelligenza, che nel 1994 fu capace come nessun altro d’intuire una svolta epocale. Aveva promesso la rivoluzione liberale e invece è stato ingoiato dalla burocrazia immobile. La stessa fine che farà Grillo». 
Celentano le telefonò dieci minuti dopo la spolverata alla sedia: «Quest’uomo non può governare il Paese». Però l’ultimo show, «Adrian», un flop stellare, lo ha venduto a una tv di Berlusconi. 
«Se la Rai non lo vuole, che deve fare un artista? Quando sei Michelangelo, è faticoso rinunciare a dipingere». 
Le piacerebbe tornare in Rai? 

«È la casa dove sono nato, ma vivo bene anche lontano dalle telecamere. A via Teulada avevo un intero piano. Dopo l’editto bulgaro mi lasciarono solo una stanzetta. Due anni senza lavorare. Era la più bella tv d’Europa e divenne la più povera, fatta su misura per Berlusconi». 
Il suo maestro chi è stato? 

«Angelo Guglielmi, il direttore di Rai3. Tu parlavi e lui intanto soffiava su una carta velina, come se fosse un’armonica. Era il suo modo di ascoltarti». 
Il miglior direttore generale della Rai? 
«Biagio Agnes. Trattava alla pari con i politici. Impose la terza rete. Al Tg3 prima ci disputavamo le poche macchine per scrivere della redazione». 
Mentre Enzo Siciliano, quand’era presidente della Rai, a chi gli faceva il suo nome rispondeva: «Michele chi?». 
«Però prima di andarsene mi chiese scusa. Sono l’unico direttore votato all’unanimità, su indicazione del presidente Letizia Moratti, che non fu mai insediato in un tg. Il dg Raffaele Minicucci bloccò la nomina per ordine del Pds. Mi risarcirono garantendo autonomia a “Tempo reale”. Appena Romano Prodi vinse le elezioni, la struttura fu sciolta». 
La sua allieva Giulia Innocenzi è ridotta a presentare i riassunti delle «Iene». 
«“Le Iene” sono lontane anni luce dal mio modo di fare giornalismo». 
Dicono che lei costi un botto. 
«Ci sono stati momenti in cui mi sono fatto pagare molto. Altri, come con “Italia” e “M”, quasi niente o molto poco». 
Con la televisione si è arricchito? 
«No, benché mi descrivano come un plutocrate. Mi sono liberato dal bisogno, anche di lavorare. Un minatore italiano in Belgio mi rimproverò: “Non date del ricco a Berlusconi. Gli fate un complimento. La ricchezza è un valore”». 
Ha nostalgia dei politici di ieri? 
«Li ho combattuti, da Giulio Andreotti a Bettino Craxi. Ma non c’è paragone con i nani di oggi». 
Si considera obiettivo? 
«Onesto. Non racconto cose false». 
Si è definito «un uomo ambiguo». 
«Ho sfaccettature complicate. Non smentisco chi mi dà del comunista. Ma credo nel mercato e nella meritocrazia». 
Giuliano Ferrara la bollò così: «La tv di Santoro è barbarie, un marchingegno in tutto simile alla gogna che intrappola i suoi fedeli spettatori nella festa degli inganni». 
«Siamo gemelli diversi. Però io non sono mai entrato in un governo. E ho intrappolato molto più pubblico di lui». 
Si ritiene vanitoso? 
«No. Tutt’al più presuntuoso». 
Eppure si tinse di biondo i capelli per sembrare più giovane. 
«Mi ero distratto e il parrucchiere me li schiarì troppo. Ora me li taglia Roberto D’Antonio, che è un mio grande amico». 
Come s’immagina da vecchio? 
«Cioè come mi vedo oggi? La vecchiaia è una brutta bestia. Non temo la morte, e infatti ho sempre rifiutato la scorta. Mi spaventa la decadenza fisica». 
Mi confessi qualcosa che non ha mai detto a nessuno. 
«In quella trasmissione con Berlusconi e Travaglio, assunsi una posizione sbagliata. Accettai che salisse la temperatura, come se il duello non mi riguardasse. Rinunciai a fare il mio lavoro. Uno skipper non abbandona mai la barca».