Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  aprile 26 Venerdì calendario

Intervista a Enrico Rava

Enrico Rava è il paradigma del jazz italiano. Per farla breve il jazzista italiano più conosciuto e amato a livello mondiale. Trombettista, compositore, scrittore. Su tutto narratore. Con o senza la tromba. La sua carriera è un filo ininterrotto di successi e scommesse, di palchi calcati al fianco delle più grandi star della musica mondiale, lungo una discografia sterminata e collaborazioni stellari come quelle con Steve Lacy, Gato Barbieri, Michel Petrucciani, Richard Galliano, Massimo Urbani. Il maestro - «maestro sarà lei», dice ridendo - ha deciso di festeggiare l’80° compleanno chiudendo il Torino Jazz Festival alle Ogr, il 4 maggio. 
Il jazz è come l’amore: tutti ne parlano ma nessuno sembra riuscire a definirlo. Cos’è per Enrico Rava?
«Il jazz è la musica che mi ha dato la vita, che mi ha dato uno scopo. Ma com’è possibile definire l’acqua che scorre? Il jazz è come un fiume che contiene una moltitudine di significati, va dal dixieland all’elettronica, passando per la fusion e il be-bop lungo una storia che ha più di cent’anni. È come dire che la musica classica è Bach. Certo, è Bach, ma è anche Schönberg. E così per il jazz: è Amstrong, Miles Davis e Ornette Coleman. Oggi diremmo che il jazz è stato il fiume principale, ma accanto scorrono il funky, l’hip-hop, il rap…». 
E oggi il jazz riesce ancora ad essere autentico?
«Devo essere sincero, oggi i giovani hanno guadagnato moltissimo in tecnica e teoria, ma per quanto mi riguarda hanno perso la capacità di emozionarmi. Sono sicuro però che sia un problema mio. Io sono cresciuto ascoltando Amstrong e Davis, mi sono appassionato a una certa idea che oggi non sento più. Se oggi avessi 16 anni e facessi il musicista non credo mi metterei a suonare jazz. Forse farei elettronica, o forse diventerei un rapper».
Dopo oltre 60 anni di musica qual è la «regola Rava»?
«Vincere la noia, questo è il mio progetto, la mia regola. E per vincerla bisogna fuggire precipitosamente da tutti i cliché in cui ci si imbatte. Detto così sembra facile…». 
Quali fattori portano a cadere nei cliché?
«Ai tempi eroici del jazz, quelli di Bix Beiderbecke e Louis Amstrong, i musicisti erano autodidatti. Io sono autodidatta al mille per cento. Poi negli Anni 50 iniziano a nascere le grandi scuole di musica, come Berkeley - di cui tra parentesi sono Doctor in music honoris causa, l’unico modo per farmi avere un titolo di studio –, poi i Conservatori, altre mille scuole, e Internet, con la possibilità di prendere tutto quello di cui si ha bisogno, dalle video-lezioni alle partiture. Ecco, tutto questo ha fatalmente uniformato il modo di suonare. Deleterio, ma…». 

Ma?
«Allo stesso tempo è molto utile per diventare musicista».
Quindi cosa è così deleterio?
«Chi studia molto è una persona che ha costruito tutte le difese immaginabili. Quindi legge benissimo, può improvvisare, fa fronte a qualsiasi situazione: è un musicista professionista che ha mille modi per sopravvivere, per fare un “mestiere”, ma l’ “artista” è un’altra cosa. La tecnica può diventare una gabbia».
La scelta è tra una gabbia e il rischio di non riuscire a guadagnarsela, la vita?
«Non una grande alternativa, eh? Ma alla fine, gabbie o non gabbie, sono convinto che per riuscire a farcela l’elemento fondamentale sia la fortuna».
Nella storia di Rava come è andata?
«Io ho avuto la fortuna di essere al posto giusto nel momento giusto. E non solo una volta, moltissime volte. Ero a New York dal 1966 al 1977 portato da Steve Lacy. Ho potuto suonare con i grandissimi quando di italiani non ce n’era ancora nessuno, oggi a New York gli italiani li tirano dalle finestre. Cammini per strada e ti cadono in testa musicisti italiani. Essere là allora fu un enorme colpo di fortuna, mi si sono aperte mille strade».
Cosa fa quando non suona?
«Passeggio, vado per mostre, leggo moltissimo. Ho appena finito Murakami – che tra l’altro è anche il traduttore giapponese di Carver, un mio mito - e oggi ho ripreso in mano i racconti di Fenoglio». 
Uno standard che non si stanca mai di suonare?
«Questa è facile: My funny Valentine. Ha presente la versione di Miles Davis del ’64? Un capolavoro. Miles aveva un senso drammaturgico pazzesco, quel pezzo l’ha trasformato in un’opera letteraria. La posso suonare tutti i giorni, può essere suonata in mille modi diversi, è un pezzo libero».