La Stampa, 26 aprile 2019
Lavoro, la minaccia dei robot in Italia
La storia insegna che le rivoluzioni hanno esiti imprevedibili, ma mentre si consumano lasciano a terra un certo numero di “vittime”. Oggi, mentre viviamo immersi nella quarta rivoluzione industriale (per alcuni addirittura la quinta), l’incertezza su come si evolverà l’occupazione preoccupa i governi e soprattutto i lavoratori, molti dei quali pagheranno un prezzo alto. Per l’Ocse in Italia il 15,2% dei posti di lavoro esistenti potrebbe infatti scomparire perché a rischio automazione e un posto su tre potrebbe subire grossi cambiamenti. Un mutamento radicale e piuttosto imprevedibile. Ma chi rischia davvero?
L’ultima stima è contenuta in un report del Club Ambrosetti, che parte da una nota ricerca di due professori di Oxford, Carl Frey e Michael Osborne. Secondo la ricerca nel nostro mercato del lavoro nei prossimi 15 anni verranno meno più di tre milioni di occupati (anche qui si parla del 15% del totale), cifra che può salire anche a 4,3 milioni. A pagare più di tutti dovrebbe essere l’industria manifatturiera (840 mila lavoratori a rischio), il commercio (602 mila), le attività immobiliari (302 mila), agricoltura e pesca (225 mila) e le costruzioni (205 mila). I macro-settori in difficoltà sarebbero anche l’istruzione e i servizi per la salute (191 mila), alberghi e ristoranti (180 mila).
Problema di competenze
La ricerca traccia anche un identikit dei lavoratori che potrebbero essere travolti più facilmente dai robot e dall’intelligenza artificiale. Sono quelli meno specializzati, di qualunque età, con un’istruzione bassa. Il titolo di studio infatti può aiutare a conservare la propria occupazione. I lavoratori senza titoli presentano il rischio più alto (pari al 21%), seguiti da chi ha la licenza media (rischio pari al 18%) e il diploma di maturità (16%). Per chi invece ha una laurea, o ancor meglio è iper-specializzato, il “rischio automazione” è ancora più basso.
Il problema centrale del nostro Paese, secondo l’Ocse, è quello che gli inglesi chiamano «skill mismatch», la differenza cioè tra le competenze che si hanno e quelle che richiede il mercato. Questo gap in Italia è molto alto: siamo l’ultimo paese europeo, seguiti da Spagna, Repubblica Ceca, Irlanda e Austria. C’è una differenza però tra le diverse regioni del Paese. Un secondo rapporto dell’Ocse pubblicato alla fine dello scorso anno entra nel dettaglio. Lombardia, Molise, Provincia di Trento, Emilia-Romagna e Lazio sono le zone che rischiano meno: qui è aumentata l’occupazione con figure che si riferiscono all’insegnamento professionale, al business admnistration e a lavori di ingegneria. Subiranno un colpo maggiore regioni come Toscana, Piemonte, Valle d’Aosta, Sicilia, Sardegna, Veneto e Marche.
L’umore delle imprese
Le aziende, principali attrici di questa rivoluzione, si dicono fiduciose. Per l’89% i robot e l’intelligenza artificiale non potranno mai sostituire del tutto il lavoro delle persone. Anzi, potrebbero avere un impatto positivo sulla vita dei lavoratori, spiega il rapporto Aidp-Lablaw 2018 a cura di Doxa. Sei aziende su dieci sono inoltre pronte a introdurre sistemi di intelligenza artificiale nelle proprie organizzazioni, così da rendere il lavoro meno faticoso e sicuro - spiegano - facendo aumentare efficienza e produttività. Peraltro il 77% è convinto che l’intelligenza artificiale permetterà di creare ruoli e posizioni prima inesistenti. L’11% si dichiara totalmente contrario a questo cambiamento.
Ogni rivoluzione d’altronde porta con sé la paura del nuovo, che oggi si trasforma in una fobia per la tecnologia e l’innovazione. Il lavoro però non scomparirà, ma cambierà. Sta alla politica raccogliere la sfida con incentivi all’acquisto di macchinari, per le start up e soprattutto con investimenti in istruzione e ricerca.