il Giornale, 26 aprile 2019
Al museo come in bagno
Non per farla fuori dal vaso, citando il mio primo direttore, Indro Montanelli, ma... turatevi il naso e leggete questo articolo. Fatto di cacca.
In inglese, la lingua universale, «cacca» si dice poop, e da poop a pop il passo è brevissimo, come quello che nei posti più evoluti solitamente separa il water dal bidet. Così in Giappone, Paese di molti tabù oltre che di innumerevoli atout, hanno vestito la poop con colori e grafica pop. Lo si vede sul sito della mostra «Unko Museum», letteralmente, appunto, «Museo della Cacca», in corso a Yokohama. Dove le cacche sono rappresentate in forma di gustosissime meringhe gialle, rosa, verdi e azzurre: le più grandi servono a divertire i bambini, le più piccole, alla maniera di statuine apotropaiche proteggono il museo stesso. Lo segnala la Cnn, non l’ultimo burlone smanettatore del web. I visitatori possono sedersi su finte toilette dai colori vivaci, disegnare rappresentazioni artistiche ispirate ai loro moti intestinali, giocare con palle farcite di cacca e farsi dei selfie con escrementi di peluche. Che liberazione!
Detto che, come spesso accade, forse anche in questo caso i giapponesi hanno ben copiato un’idea altrui, cioè il «Museo della merda» di Castelbosco, in provincia di Piacenza, nato nel 2015, che è però di tenore antropologico, etnografico e industriale, si deve aggiungere che all’«Unko Museum» accorrono in tanti, circa mille persone al giorno, come spinte dal bisogno ancestrale di scherzare sulla più democratica e universale delle impellenze. E, non certo per patriottismo, come dimenticare l’opera, replicata in 90 barattoli e perciò presente in molti musei famosi come la Tate Modern di Londra e il Museo del Novecento di Milano, dell’italiano Piero Manzoni dal titolo Merda d’artista datata 1961? Memorabile fu in precedenza il servizio fotografico dedicato nel 1898 da Maurice Joyant all’amico pittore Henri de Toulouse-Lautrec, colto nell’atto fatale su una spiaggia.
Uscendo dai musei per entrare nella storia, profuma (si fa per dire) ancor più d’antico l’imprecazione del generale Pierre Cambronne, pronunciata (forse, visto che le parole – almeno loro – le porta via il vento) a Waterloo durante la celebre battaglia del 1815, quando effettivamente le cose, per la Francia stavano andando di «merde!». Non sentendosi responsabile in solido della sconfitta, Cambronne rifiutò l’invito ad arrendersi con una sola, ma inequivocabile, parola e gli inglesi, per non correre rischi, ricominciarono a sparare. Comunque, è fin troppo facile aggrapparsi alla merda per suscitare scandalo e schifo nel pubblico, dal poema satirico Merdeide del secentesco Tommaso Stigliani al Pier Paolo Pasolini di Salò o le 120 giornate di Sodoma. Più difficile, invece, conquistare, trattando quel tema, un posticino sulla prima pagina di un quotidiano a diffusione nazionale, come è avvenuto ieri. No, non su questo che state leggendo ora, su un altro.
E siccome si dice che pestare quella cosa porti bene, speriamo possa essere il segnale di un rilancio della carta stampata. La quale, in ultima analisi, dovrebbe fornire un servizio.