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 2019  aprile 26 Venerdì calendario

Un lavoratore su tre ha più di 50 anni

I fatti dicono che in Italia, praticamente da sempre, sono “i vecchietti” a tirare innanzi la carretta. Il problema è che stando alle buone regole dell’economia uno dei dati più significativi per misurare lo stato di salute di un Paese riguarda l’eta media della popolazione lavorativa. Più è bassa più quella comunità se la passa bene. Più ci sono giovani occupati che in linea di principio spenderanno ciò che guadagnano per sposarsi, comprar casa, fare figli o metter su una nuova attività e più aumenteranno i consumi e si metterà in moto quel circolo virtuoso (consumi-imprese in salute-posti di lavoro) che tanto bene fa ai conti pubblici. Al contrario, se l’età media della popolazione lavorativa è molto alta – sempre in linea di principio si intende – aumenterà la propensione al risparmio, a tenere immobilizzate le entrate e a investire in mattone e strumenti finanziari, che non sono un male ci mancherebbe ma di lavoro ne creano ben poco. Più che di una teoria economica si tratta di buon senso. Da noi, però, chi ci governa il buon senso l’ha messo da parte e si preoccupa quasi esclusivamente di procacciarsi consenso. La mia base elettorale è composta in buona parte dai disoccupati del Mezzogiorno? E allora vai con il reddito di cittadinanza. I voti mi arrivano dalla classe media? E allora vi regalo gli 80 euro. Sono esempi, solo quelli più recenti, ma è davvero difficile scovare nelle politiche economiche degli ultimi governi provvedimenti lungimiranti che mettano al centro la questione occupazionale. Risultato? Secondo le rilevazioni dell’ufficio studi della Cgia di Mestre l’Italia vanta il triste primato della popolazione lavorativa più vecchia d’Europa: 44 anni contro una media dei 42 registrata nei principali paesi Ue. E negli ultimi 20 anni siamo invecchiati – lavorativamente parlando – più di tutti: di ben 5 anni. Morale della favola: nel nostro Paese l’incidenza degli ultra 50enni sul totale degli occupati è del 34,1%. Cioè, più di un italiano su tre che lavora ha superato i 50 anni. Per dire, gli over 50 occupati in Spagna si fermano al 28,8% del totale, in Francia al 30% e nel Regno Unito al 30,9%. Certo, la Germania ha un dato superiore al nostro (35,9%), ma stiamo parlando di un Paese che ha tassi di occupazione (la disoccupazione da noi supera il 10% mentre a Berlino è ferma al 5%) e di produttività che l’Italia si sogna.

L’ALLARME
Tanto dovrebbe bastare per far scattare l’allarme e mettere la crescita dell’occupazione giovanile – secondo gli ultimi dati Istat è arrivata al 32,8% contro una media europea del 14,6% – in testa alle priorità di chi ci guida. Ma purtroppo noi a quest’allarme abbiamo risposto con il reddito di cittadinanza. Che di suo sarebbe anche costellato di buone intenzioni (la seconda gamba prevederebbe formazione e ricerca di un lavoro per i disoccupati), ma che nella pratica si sta concretizzando come un mero sussidio a vantaggio di chi non ha gran voglia di darsi da fare. Senza contare che secondo l’ultimo rapporto dell’Ocse «il livello attuale del sussidio è elevato sia rispetto al reddito medio degli italiani che agli strumenti simili varati negli altri paesi Ocse». Insomma, che l’Italia non fosse un Paese per giovani l’avevamo capito, ma qui il punto è che il brutto deve ancora venire. Proprio ieri lo stesso Employment Outlook 2019 dell’Ocse ci ha messo di fronte alla grande sfida dei prossimi anni. La rivoluzione 4.0: l’automazione o robotizzazione che dir si voglia del lavoro. In Italia potrebbe “distruggere” il 15,2% dei posti e provocare la trasformazione di un mestiere su tre. “Il 35,5% dei posti di lavoro – si legge nel rapporto – verrà eseguito con mansioni molto diverse o potrebbe subire sostanziali cambiamenti”. Il dato dal quale si parte è che alcune professioni scompariranno, almeno per come le conosciamo adesso, mentre ne nasceranno delle nuove che che andranno coperte. La scommessa è tutta qui. Sono a maggior rischio i lavori a bassa specializzazione, mentre resisteranno e si evolveranno i mestieri a maggior valore aggiunto. Chi è impiegato nel manifatturiero, ma anche in settori specifici come quello dei trasporti, del food e del beverage, corre maggiori rischi, mentre il futuro sarà di chi è in grado di coniugare le grandi competenze tecniche alla capacità di relazionarsi. Ci sarà sempre più bisogno persone capaci di garantire la sicurezza digitale, di analizzare i big data tirati fuori dalle macchine, di sviluppare le intelligenze artificiali o semplicemente di governare i processi che stanno dietro ai social media. Una grande opportunità soprattutto per i giovani. Ecco, come si presenta l’Italia davanti a questa sfida? Sicuramente in una posizione di svantaggio. Non a caso siamo l’unico paese del G7 in cui la quota di lavoratori laureati in posti con mansioni di routine (quelle più a rischio automazione) è più alta di quella che fa capo ad attività poco ripetitive (le più sicure). E abbiamo il triste primato della quota di dipendenti sotto occupati – chi lavora a orario ridotto ricevendo un compenso inferiore – che dal 2006 è raddoppiata ed è ora la più alta (12%) tra i paesi Ocse. Senza contare che bisogna combattere con la solita questione anagrafica. Gli ultra-65enni, che erano il 23,5% della popolazione in età lavorativa nel 1980, sono saliti al 37,8% nel 2015 e se il trend continua così nel 2050 supereranno quota 72%. Un problema. Perché gli anziani non garantiscono l’incremento del lavoro qualificato necessario per limitare i processi di automazione che alla fine distruggono occupazione. Un circolo vizioso. Dal quale è difficile uscire. Ma se non ci proviamo è impossibile che arrivi qualcuno disponibile a farlo al posto nostro. 

FORMAZIONE
Sarebbe, per esempio, fondamentale puntare sulla formazione. Ma noi non la snobiamo. «Il sistema italiano di formazione permanente non è attrezzato per le sfide future – evidenzia l’Ocse – Nell’ultimo anno solo il 20,1% degli adulti in Italia ha partecipato a programmi di adeguamento professionale e solo il 60% delle imprese, con almeno 10 dipendenti, offre formazione continua ai propri dipendenti, contro una media europea Ocse del 75,2%». Una questione che per l’Italia è ancora più importate visto che siamo il Paese europeo con il più alto tasso di skill mismatch. Cosa vuol dire? Semplicemente che c’è una differenza abissale tra le competenze possedute e quelle richieste dal mercato. Servono “data scientist” e noi abbondiamo di tornitori. Per colmare questo vuoto dovremmo rivoluzionare il sistema universitario, puntare sugli istituti tecnici, migliorare il collegamento scuola-lavoro e chiedere ai partiti, che hanno perso l’ultimo anno a litigare sull’utilità del reddito di cittadinanza, di mettere questo tema al centro del dibattito politico. Magari siamo ancora in tempo.