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 2019  aprile 25 Giovedì calendario

L’idea della spesa pubblica senza freni

Che cosa impedisce a uno Stato di chiudere il suo bilancio con un deficit del 5, del 10 o anche del 20% del suo Prodotto interno lordo? Se quello Stato è l’Italia la risposta è semplice. Prima di tutto glielo impediscono le regole europee, che non permettono passivi di bilancio superiori al 3% e sono anche più severe con Paesi molto indebitati. Poi glielo impediscono gli investitori, che davanti a simili eccessi molto presto per comprare i nostri titoli di Stato chiederebbero interessi che l’Italia non sarebbe in grado di pagare. Infine glielo impedisce l’euro, che non si può svalutare per alleggerire il passivo. Avessimo ancora la vecchia lira gestire deficit più elevati sarebbe appena un po’ meno complicato. La Banca d’Italia potrebbe intervenire come ha fatto per qualche tempo tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, ma a prezzo di rischiare un’inflazione fuori controllo e demolire la fiducia degli investitori stranieri.
Questo, almeno, è (in versione molto semplificata) quello che risponderebbe la grande maggioranza degli economisti. Non tutti però. Negli Stati Uniti sta guadagnando un’improvvisa popolarità una visione del deficit dello Stato e del debito pubblico molto diversa da quella tradizionalmente condivisa nell’ambito delle scienze economiche. È la ’teoria monetaria moderna’ (Mmt la sua sigla inglese), secondo la quale non bisogna preoccuparsi troppo di quanto uno Stato si indebita, finché l’inflazione è sotto controllo. I teorici della Mmt danno sostanzialmente al governo invece che alla banca centrale il compito di gestire la massa monetaria, cioè la quantità di moneta in circolazione.
Questo vale ovviamente solo per quei Paesi che controllano la loro moneta (cioè quasi tutti tranne quelli della zona euro) e in particolare agli Stati Uniti, visto che il dollaro è la moneta al centro del sistema finanziario mondiale. Secondo la teoria monetaria moderna, ogni anno il governo americano dovrebbe decidere quanto deve spendere e quindi mettere in circolo il denaro che serve. Il deficit non è un problema, perché il governo americano dovrebbe fare stampare dalla Federal Reserve tutto il denaro che occorre, almeno finché ha a disposizione risorse su cui investirlo: cioè lavoratori disoccupati, risorse naturali non utilizzate e capacità produttiva inespressa. U na volta finanziati i suoi investimenti con nuova moneta immessa nel sistema, il governo può valutare la situazione e ritirare il denaro in eccesso attraverso le tasse. Se ritira meno di quanto ha distribuito, allora fa un deficit. Il corollario di questa teoria è che finché gli investimenti funzionano e l’inflazione è sotto controllo deficit e debito pubblico non sono un problema. Un esempio pratico: se il governo ha un progetto su cui investire, ad esempio un’autostrada da costruire, per finanziarlo non deve fare altro che stampare dollari freschi e metterli in circolazione pagando le imprese coinvolte nel progetto. In questo modo mette all’opera le risorse a disposizione nel suo sistema economico. Quando quelle risorse si avvicinano all’esaurimento, ad esempio perché non ci sono più disoccupati da mettere al lavoro, allora l’inflazione sale e il governo può ’estrarre’ moneta dall’economia attraverso le tasse. La Mmt non propone quindi di fare deficit illimitati, ma di farli ogni volta che occorre denaro per fare investimenti che permettano di attivare tutte le forze produttive. È evidentemente un modello molto differente da quello in vigore in tutti i Paesi del mondo, dove sono le banche centrali a controllare la massa monetaria e gestire il rischio di inflazione tenendo i tassi bassi quando l’economia e i prezzi sono fiacchi e alzandoli quando la situazione si surriscalda. La più famosa teorica della teoria monetaria moderna è Stephanie Kelton, docente della Stony Brook University. Non è proprio un’economista insigne: non rientra nemmeno nel 10% degli studiosi più citati nell’ambito della ricerca economica. In compenso è molto determinata. Di recente ha ingaggiato un duello teorico con Paul Krugman, premio Nobel per l’Economia e consulente di Barack Obama, che ha liquidato tutta la teoria come confusa e priva di solidità. In realtà sono pochissimi gli economisti che sostengono la Mmt. Tra loro non ci sono vincitori di premi Nobel né docenti della Ivy League, il club delle più prestigiose università americane. Nonostante diversi economisti considerati ’falchi’, compreso il celebre Kenneth Rogoff o l’ex capo economista del Fondo monetario internazionale Olivier Blanchard, stiano ammorbidendo le loro posizioni sui debiti degli Stati, nessuno arriva a dire che un Paese può fare tutto il deficit che vuole, finché l’inflazione non sale. Jerome Powell, numero uno della Federal Reserve, davanti al Congresso ha ribadito che ’l’idea che i deficit non importino per Paesi che possono indebitarsi nella loro stessa moneta è semplicemente sbagliata’. Warren Buffett, il più grande finanziere del mondo, ha assicurato di ’non essere per niente un fan’ della teoria. Larry Fink, numero uno di BlacRock, l’ha definita ’spazzatura’.
L a Mmt ha però i suoi numerosi sostenitori. Molti, un po’ a sorpresa, si trovano Wall Street. Diversi analisti finanziari in questo ultimo decennio hanno visto andare in crisi le tradizionali teorie mo- netarie: negli Stati Uniti come in Europa le banche centrali nonostante i loro sforzi titanici nell’aumentare la quantità di moneta a disposizione sono a malapena riuscite a risollevare l’inflazione. Le cose non hanno funzionato come ci si aspettava, per questo negli uffici studi c’è chi non esclude che interpretando le prospettive economiche nel quadro della Mmt si possano ottenere previsioni più accurate. Lo ha detto apertamente, sfidando la perplessità dei colleghi, Jan Hatzius, capo economista di Goldman Sachs, mentre Mohamed El-Erian di Allianz ha ammesso che questa teoria ’ha il merito di stimolare il dibattito’. Alcuni finanzieri, come il miliardario Ron Biscardi del fondo Context Capital e Warren Mosler (altro squalo dei fondi speculativi), la sostengono anche per esplicito interesse: se è con il deficit, non con le tasse, che il governo finanzia i suoi investimenti, allora non c’è bisogno di chiedere maggiori contributi ai più ricchi.
M a se la teoria è diventata molto popolare negli ultimi mesi è merito dei politici di sinistra. L’ha pienamente adottata Bernie Sanders, che ha avuto Kelton come consulente nelle presidenziali 2016 e senza dubbio userà di nuovo la Mmt in vista della campagna elettorale per le elezioni del 2020. L’ha citata la deputata più pop del momento, l’ex barista newyorchese Alexandria Ocasio-Cortez, proponendo di finanziare totalmente in deficit il Green New Deal, il progetto vago ma sicuramente enorme di conversione ecolo- gica dell’economia americana. Era scontata la popolarità politica della Mmt: i politici non vedevano l’ora di avere a disposizione una teoria che permettesse di finanziare in deficit i loro progetti non dovendo più fare i conti con i vincoli del bilancio dello Stato. È qualcosa che sognerebbero anche i politici italiani, considerato che governano uno dei paesi con il debito pubblico più alto del mondo e vedono nella creazione di deficit la risposta a gran parte dei nostri problemi. Nel nostro Paese esiste già una rete di ’attivisti’ a favore di questa teoria monetaria. È facile sospettare che anche da noi la Mmt presto godrà di molta popolarità politica. Dopo avere riempito i talk show di sedicenti economisti capaci di presentare come credibili strampalate teorie economiche, i partiti italiani non dovrebbero faticare a inserire la Mmt nel loro bagaglio di proposte anti-sistema. La Mmt ha però un altro corollario che i partiti farebbero bene a non ignorare. È quello per cui se i governi sono chiamati direttamente a intervenire per contrastare l’inflazione alzando le tasse quando necessario. Significa che gli eletti dovrebbero farsi sistematicamente carico di scelte molto impopo-lari, anche sacrificando il successo politico per la sostenibilità delle casse pubbliche e dell’economia nazionale. L’indipendenza delle banche centrali è importante proprio per questo: permette loro di fare scelte tecnicamente corrette ma politicamente disastrose, perché contrarie alla volontà popolare. A nche questo cardine delle democrazie occidentali, però, è ormai in crisi. La battaglia che Donald Trump sta portando avanti contro Jerome Powell, che lui stesso ha nominato alla guida della Federal Reserve, ne è la massima dimostrazione. Lo accusa di avere frenato la crescita del Pil e di Wall Street con l’aumento dei tassi. Il presidente americano vuole contrastarlo inserendo nel direttivo della Fed il suo amico Herman Cain, che ha un passato da amministratore delegato di Godfather’s Pizza. Se l’ex manager di una catena di pizzerie ispirata al film ’Il Padrino’ può legittimamente aspirare a partecipare alle decisioni sulla politica monetaria americana, allora niente può impedire agli estimatori della teoria monetaria moderna di ambire a sperimentare nella realtà la loro sorprendente visione dei conti pubblici.