il Giornale, 25 aprile 2019
Intervista a Tarcisio Burgnich, che compie 80 anni
«Giocavamo con una pallina di stracci. Era finita da poco la guerra, non c’erano quattrini: si faceva un fagotto, lo si riempiva di fieno ed era il nostro pallone. Già la pallina da tennis ce l’avevano solo i benestanti, figuriamoci un pallone vero. Si giocava e si palleggiava con quella, e la passione è nata lì». Ordinaria per quei tempi, straordinaria nel ricordo attuale, la fotografia di un calcio scomparso, firmata da Tarcisio Burgnich, 80 anni oggi, uno dei nomi più importanti della storia dell’Inter e della nazionale, 19 anni di serie A da calciatore e 23 stagioni da allenatore. Nato a Ruda, in provincia di Udine, pochi chilometri ad ovest dell’Isonzo e proprio sotto la rotta di chi ora parte e atterra all’aeroporto di Ronchi dei Legionari, giovanili e debutto in serie A (penultima giornata della stagione 1958-59) nell’Udinese, poi nell’estate del 1960 l’acquisto da parte della Juventus. Una stagione e uno scudetto, la cessione recalcitrante al Palermo, il ritorno a nord con l’ingaggio da parte dell’Inter, dove per 12 stagioni, 1963-74, è stato difensore esemplare, terzino destro ma anche centrale, ruolo che però non era il preferito, perché gli permetteva di influire meno sulla partita, vero?
«Sì, anche da terzinone di marcatura cercavo di avanzare, e andavo sempre in area avversaria quando c’erano un calcio d’angolo o un calcio di punizione. Ho sempre avuto voglia di fare risultato, e da centrale dovevo per forza essere più statico».
Pochi gol, otto in 18 stagioni di A e due in 66 partite con la nazionale, ma il più memorabile in azzurro arrivò proprio così: 8’ del primo supplementare, 2-1 Germania nella semifinale dei Mondiali del 1970, calcio di punizione di Gianni Rivera, rinvio maldestro di Siggi Held e Burgnich di sinistro mette dentro da pochi metri.
«Esatto, anche quella volta ho seguito la mia mentalità di voler cercare il risultato, e l’aveva portata il Mago, che voleva che ognuno di noi volesse vincere, tanto come lo voleva lui».
Il Mago. Helenio Herrera, l’allenatore della Grande Inter: che personaggio ricorda?«Herrera era la novità, allenatori come lui non se n’erano mai visti. A quei tempi nelle squadre comandavano i vecchi, non gli allenatori, mentre con lui cambiò tutto, il tecnico cominciò a prendere in mano la gestione e gli anziani non ebbero più il potere di fare e disfare. E lui diede delle regole precise: se tu sbagliavi appena appena ti castigava, ti dava le multe, mentre prima non si arrivava mai a questo».
In nazionale, invece, Edmondo Fabbri e Ferruccio Valcareggi.
«Erano molto diversi dal Mago, che da calciatore non aveva avuto un grande passato. Loro avevano giocato molti anni e conoscevano la mentalità del calciatore, c’era più libertà».
In nazionale, un successo agli Europei del 1968 con la doppia finale (1-1 e 2-0) sulla Jugoslavia, dopo una semifinale contro l’Unione Sovietica vinta grazie al lancio della monetina. Cosa si prova ad aspettare che una partita così venga decisa in quel modo?
«Eh, si aspettava e si aveva anche il cuore sereno e tranquillo, perché avevamo un capitano che come andava là vinceva sicuramente».
Quel capitano era Giacinto Facchetti, compagno in nazionale e nell’Inter e
«e come ho detto tante volte, persona con la quale ho vissuto più tempo che con mia moglie. Quella Inter era una grande squadra che ha ottenuto tanti risultati, se andiamo a vedere campionati, coppe Campioni e Intercontinentali vinte. Giacinto era il terzino dalla parte opposta alla mia e più che fare il difensore prendeva sempre l’iniziativa con e senza palla, mentre in mezzo a proteggerci c’era Armando Picchi, che aveva il senso della posizione e la velocità per chiudere»
L’avversario più difficile che ha affrontato?
«Francisco Gento, l’ala sinistra del grande Real Madrid. Era uno che ti puntava e cercava di saltarti, bisognava anticiparlo o stargli molto vicino, perché se aveva un po’ di spazio buttava la palla avanti, usciva dalla linea laterale e andava a prenderla, veloce com’era».
La vittoria più bella?
«Proprio contro il Real Madrid, nella finale di Vienna del 1964. Quando metti sotto i tuoi idoli e vinci la Coppa dei Campioni contro la squadra che l’aveva vinta cinque volte ed era stata anche campione del mondo».
Lo stadio più memorabile?
«Il Santiago Bernabeu faceva una certa impressione, ma San Siro è il massimo, sempre».