il Giornale, 25 aprile 2019
Martin Amis: «Sono anti-islamista»
Immaginate se chiedessero a uno scrittore italiano se è contrario all’islamismo, subito farebbe no no con la testolina, per carità. Uno come Martin Amis invece non ha nessun problema a dirlo: «Sono un islamismo-fobo, nel senso di anti-islamista, perché il termine fobia indica una paura irrazionale, e non c’è niente di irrazionale nell’avere paura di gente che dichiara di volerti uccidere». Il bello degli americani (sebbene Amis sia inglese, ma vive negli Stati Uniti da molti anni), è che esistono intellettuali non catalogabili, come da noi, nelle categorie di destra e sinistra. E non prevedibili. Non essendovi dubbio che Amis sia decisamente di sinistra. Ma non della nostra sinistra ammuffita e perbenista.
Se già amate i suoi romanzi, potete farvi un’idea del suo pensiero nella raccolta di saggi e interventi scritti nell’arco di un trentennio appena uscita per Einaudi, intitolata L’attrito del tempo. Dentro c’è di tutto e di più, aneddoti personali, riflessioni letterarie, incontri, reportage, pubblicati sulle più importanti riviste degli Stati Uniti. Dove, come afferma Amis, gli scrittori contano ancora qualcosa, in quanto si tratta di «una società di immigrati, sterminata, senza una forma ben precisa, nella quale gli scrittori da sempre occupano una posizione indiscussa perché tutti fin dall’inizio hanno intuito che avrebbero avuto un ruolo importante nella costruzione della proteiforme immensità del paese».
Magnifici i suoi articoli su Nabokov, un grande scrittore che oggi in epoca di #metoo rischia di essere messo al bando, basti pensare al suo capolavoro Lolita. Nabokov «si spinge fino ai limiti estremi dell’universo morale» e senza mai tentare una spiegazione, una giustificazione. Che è quello che dovrebbe fare uno scrittore. D’altra parte Humbert bramava «un mondo dove più nulla avrebbe avuto importanza e tutto sarebbe stato permesso», e in Ada o ardore l’amante del sessantenne Van ha addirittura dieci anni. «Bisogna spingersi fino alle frange estreme della letteratura – Lewis Carroll, William Burroughs, il marchese De Sade – per trovare un’attenzione altrettanto morbosa per attività che giustamente consideriamo sempre e comunque imperdonabili».
Comunque anche l’America ha le sue pecche nei riconoscimenti tardivi. Basti pensare a uno dei capolavori di tutti i tempi, Moby Dick di Herman Melville: comparve, e scomparve, nel 1851, e già all’età di quarant’anni l’autore era dimenticato e non più pubblicato, ridotto a lavorare in un ufficio della dogana di New York, e «il revival melvilliano è cominciato esattamente cento anni dopo la sua nascita». I classici, insomma, critici e lettori se li sono spesso trovati sotto gli occhi senza accorgersene se non decenni o talvolta secoli dopo.
Martin Amis infilza in una lunga invettiva Donald Trump e i suoi elettori, «perché ogni tanto gli americani sentono il bisogno di elevare al rango di eroe uno zotico qualsiasi» (aggiungerei non solo gli americani), elogia lady Diana, «portatrice di una bellezza che faceva apparire brutti i Windsor» e incontra estasiato John Travolta, nel momento in cui tutti se lo erano dimenticato, quando fu riscoperto da Quentin Tarantino, che per Pulp Fiction mise un aut aut ai produttori: «O con Travolta o niente».
Ma non solo letteratura e star del cinema, Amis non disdegna di dedicarsi al porno, vedendosi con varie pornostar e con il regista John Stagliano, in un reportage il cui titolo dice tutto, La fica è una presa per il culo, riferendosi alla prevalenza del genere anal. Con tanto di statistiche per tutti i moralisti, da far cascare i capelli a piccole autrici predicatrici femministe nostrane come Michela Murgia o Elena Stancanelli, perché «il porno rappresenta una fetta di mercato più ampia di quella della musica rock e molto più ampia di quella di Hollywood». Tanto per farci un’idea, nel 1975 il valore di mercato totale della pornografia hardcore solo negli Stati Uniti era tra i cinque e gli otto milioni di dollari, oggi supera gli otto miliardi di dollari all’anno. «Qualunque cosa sia la pornografia, qualunque cosa faccia, può non piacere, ma non possiamo cancellarla. Parafrasando Falstaff: chi mette al bando la pornografia, mette al bando il mondo intero».
E poi si parla di Burgess, di Updike, di Kubrick, ma non poteva mancare un capitolo dedicato a un altro grande intellettuale britannico naturalizzato statunitense, Christopher Hitchens, scritto quando Hitchens era ancora in vita. Anche lui inclassificabile, di sinistra e feroce avversario di ogni religione ma attaccato dai democratici perché favorevole alla guerra in Iraq contro Saddam e contro ogni dittatore islamico. Ricordando la sua totale indipendenza (in Italia uno come Hitchens sarebbe stato messo al bando da qualsiasi giornale), e quando qualcuno gli diceva che non aveva capito un suo pensiero gli rispondeva: «La cosa non mi sorprende affatto». Citando molte frasi di «The Hitch» diventate celebri, tra cui quella sul matrimonio gay, che «è una questione di socializzazione dell’omosessualità, e non di omosessualizzazione della società. Il che dimostra quanto tra i gay sia diffuso un atteggiamento conservatore, anziché estremista». Oppure un pensiero che toglierebbe a medici come Roberto Burioni il gravoso compito di combattere con documenti e studi ogni panzana dei no-vax: «Se qualcosa si può affermare senza prove, si può anche confutare senza prove».
Infine Amis torna a ragionare di letteratura, ma anche qui mettendo in guardia i benpensanti, (le signore mie del nostro Alberto Arbasino) perché «il principio fondamentale della letteratura è il decoro, che è l’esatto contrario della definizione che ne dà il dizionario: comportamento in linea con il buon gusto e la decenza, cioè la sottomissione a un consenso pecoresco».