Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  aprile 25 Giovedì calendario

La gara populista del voto in India

Le elezioni indiane sono, quest’anno più che mai, una sfida tra populismi: uno d’impronta più marcatamente sociale, quello del partito del Congresso, e uno più nazionalista, interpretato dal premier uscente Narendra Modi e dal suo Bharatiya Janata Party (Bjp). Le promesse di sviluppo e lotta alla povertà si rincorrono in un gioco al rialzo che non tiene troppo conto della loro fattibilità e che renderà tanto più arduo mantenerle.
La posta in palio, oltre ai 543 seggi della Lok Sabha (la Camera bassa), è il Governo della democrazia più grande e popolosa del mondo. L’onere associato al premio che spetta al vincitore è liberare l’enorme potenziale della sua economia. Un obiettivo che Modi ha inseguito con accanimento per cinque anni, senza centrarlo in pieno. Né era possibile farlo in una sola legislatura, nonostante molti passi avanti, a cominciare dall’introduzione di una Iva nazionale, che però in una prima fase ha creato confusione e frenato l’attività economica.
Troppe le promesse rimaste sulla carta, come quella di creare milioni di posti di lavoro (la disoccupazione sarebbe ai massimi da 40 anni) o quella di elevare le condizioni di vita nelle campagne, che restano misere al punto da far registrare un aumento dei suicidi. Su questa delusione il partito del Congresso cerca di costruire la rivincita, dopo la batosta del 2014.
Le elezioni indiane sono uniche al mondo: scandite in sette tappe, ognuna delle quali chiama all’appello decine di milioni di abitanti in diversi Stati della Confederazione. Il processo, iniziato l’11 aprile, si chiude il 19 maggio. I voti saranno contati il 23. Impossibile accogliere alle urne in un solo giorno 900 milioni di elettori e garantire condizioni di trasparenza e sicurezza.
In campagna elettorale, tradito da un’economia che cresce oltre il 7%, ma non tanto quanto avrebbe sperato, Modi si è spostato sempre più sui temi della sicurezza nazionale. Non solo agitando lo spettro del Pakistan, ma facendo riferimento anche agli attentati di Pasqua nello Sri Lanka. Nei cinque anni di Governo, Modi e il Bjp hanno spinto a fondo sull’identità induista, a costo di allarmare e allontanare sia la minoranza musulmana che il mondo laico. Su questa anima dell’India, il premier continua a scommettere, senza dimenticare nuove promesse di crescita e benessere.
Nel suo manifesto elettorale, il Bjp si impegna a spendere 1.440 miliardi di dollari in infrastrutture e a raddoppiare il reddito degli agricoltori entro il 2022, investendo 359 miliardi di dollari nello sviluppo delle aree rurali e offrendo a chi lavora la terra 6mila rupie (85 dollari) all’anno come sostegno al reddito. Nuove risorse andranno ai programmi già avviati per portare nelle abitazioni dei villaggi agricoli elettricità, internet e toilette.
È un bacino di voti fondamentale quello degli agricoltori: più della metà della popolazione dipende in qualche modo dal settore. Per riconquistarlo, il leader del Congresso, Rahul Gandhi (figlio di Sonia Gandhi), si è impegnato a cancellare i debiti contratti dai contadini in tutto il Paese. Tra il 2014 e il 2018, la stessa promessa è stata fatta in 11 Stati, a guida del Congresso come del Bjp, per un costo complessivo di mille miliardi di rupie (14 miliardi di dollari).
In difetto di carisma nei confronti di Modi, Gandhi è affiancato dalla sorella Priyanka. E punta tutto sui temi economici, spingendosi fino a promettere di bandire la miseria dal Paese entro il 2030 (obiettivo presente anche nel programma del Bjp, ma con toni meno perentori). L’arma principale è il reddito minimo garantito a beneficio del 20% più povero della popolazione: famiglie che si vedrebbero accreditare direttamente sul conto corrente in banca poco più di mille dollari all’anno, in modo che il loro reddito non scenda sotto i 174 dollari al mese. Una redistribuzione che vale il 3,6% del Pil. L’India ha fatto molto per combattere la povertà estrema, che però ancora colpisce 50 milioni di persone costrette a vivere con meno di 2 dollari al giorno, secondo Brookings Institution.
Il Congresso promette anche il raddoppio della spesa per la salute al 3% del Pil. Il tutto, impegnandosi a rispettare l’obiettivo del rapporto deficit/Pil del 3% entro il 2021. Gandhi fa suo uno dei più grandi traguardi inseguiti da Modi, quello di industrializzare l’India e di portare il peso del settore manifatturiero al 25% del Pil (dal 16% attuale) entro il 2021. Una promessa che il piano Make in India del premier uscente non ha mantenuto, se non in minima parte: quando Modi si è insediato il manifatturiero non arrivava al 15% del Pil.
Dal voto, secondo i sondaggi, il Bjp uscirà come il partito più forte, ma ridimensionato. L’ipotesi della sconfitta a vantaggio di una coalizione guidata dal Congresso è remota, ma non esclusa. Il risultato sarà un Governo più debole che farà ancora più fatica a portare avanti le riforme. E a mantenere le promesse.