Corriere della Sera, 25 aprile 2019
L’odio di McEnroe per le Atp Finals
John McEnroe lo odiava, a meno che si disputasse al Madison Square Garden di New York: la rottura di scatole di allungare la stagione di un’altra settimana era tollerabile solo sul campo sotto casa (tre successi: ’78, ’83, ’84). E la girandola di nomi dalla fondazione – The Masters, Atp Tour World Championship, Tennis Master Cup, Atp World Tour Finals, Atp Finals – non ha mai sanato il peccato originale che fa inorridire i puristi: in occasione dell’ultimo torneo dell’anno, lo sport individuale per eccellenza si concede il vezzo di incoronare un vincitore che può aver perso un match. Il regolamento non prevede l’eliminazione diretta, uno dei granelli più saporiti del sale del tennis.
Con la sua formula eretica, l’incedere claudicante dei gironi, la puntualità quasi fuori tempo massimo, a novembre, quando gli otto Maestri (all’inizio erano sei tutti contro tutti, forse il format migliore: trionfi di Stan Smith a Tokyo ’70 e Ilie Nastase a Parigi ’71) non vedono l’ora di decollare verso il focolare con Mirka (Federer) o il caldo di un’isola tropicale (tutti gli altri), il Master è un torneo enorme (chi non vorrebbe in campo per sette giorni gli 8 migliori tennisti della classifica mondiale?) e atipico, in grado di consacrare un talento come di incenerirlo: di Grigor Dimitrov, il bulgaro troppo in fretta ribattezzato «il nuovo Federer», campione 2017 sull’onda del momento di grazia, si stanno ancora cercando le tracce sui courts.
La girandola di città, 16 in quattro continenti (Torino sarà la 17esima) sparpagliate lungo 48 anni di storia, non ha contribuito a creare l’affezione del pubblico: i match a Shanghai erano all’alba per l’Europa, quelli a Londra (che l’anno prossimo passa il testimone all’Italia) di mattina per gli Usa, le due puntate in Oceania (Vilas re a Melbourne ’74, Hewitt a Sydney 2001) le hanno seguite solo gli australiani. Perché un conto è sapere che Wimbledon si gioca all’All England Lawn Tennis and Croquet Club di Church Road dal 1877, un altro è inseguire il Master in giro per l’orbe terracqueo, tirato per la giacchetta dagli sponsor e spartito tra Paesi in base a logiche di geopolitica sportiva che non prescindono dal presidente dell’Atp e dalla corrente dominante nel ranking. Poiché dal 2003 tre Immortali europei – uno svizzero, uno spagnolo e un serbo (Federer, Nadal, Djokovic citati in ordine di titoli Slam: 20, 17, 15) – marchiano a fuoco il tennis, da dieci anni il torneo ha piantato le tende a Londra, patria di Chris Kermode, presidente dell’Atp che lascerà a fine anno (guarda caso insieme con l’ultima edizione delle Finals all’O2 Arena), destituito dal board dei giocatori per non essere riuscito a garantire loro (ancora) più soldi.
Il Master fa rotta verso Torino, Piemonte, Italy, anche perché i tennisti (la maggior parte di stanza a Montecarlo) non hanno più voglia dell’ennesimo volo intercontinentale a fine stagione. New York con le sue 13 edizioni rimane la sede più longeva (dal ‘77 all’89) e iconica. L’immagine teletrasmessa e remota di un campo senza corridoi su sfondo blu, magari con Ashe, Connors, Mac, Borg, Lendl, Becker ed Edberg in campo – gli eccelsi antagonisti creati dal tennis di quell’era geologica —, sopravvive al tempo. Un rettangolo, miliardi di combinazioni possibili per ricavarne l’area. Il tennis del Master è stato, è, anche questo.