Corriere della Sera, 25 aprile 2019
Falsi miti su spesa e debito
Che cosa ci aspetta nei prossimi mesi, di qui a settembre quando il governo, qualunque esso sia, dovrà scrivere una legge di Bilancio per l’anno prossimo? C’è chi pensa che l’unico modo per far quadrare i conti sia lasciare crescere il debito pubblico. Il debito, dicono, è un falso problema, uno spauracchio inventato per imporre l’austerità. Citano il Giappone, un Paese che ha accumulato molto più debito di noi (oltre 230 per cento del Pil contro il nostro 133) e pare aver trovato il modo di conviverci. Convivere certo, ma senza crescita. In trent’anni il debito giapponese è cresciuto dal 70 al 235 per cento del Pil, ma moltiplicare di oltre tre volte il debito non è servito ad evitare una stagnazione peggiore della nostra. In questo trentennio il reddito giapponese è salito in media dell’1 per cento l’anno, mezzo punto meno che nei Paesi dell’euro dove il debito pure è aumentato, ma di soli 20 punti (dal 65 all’85 per cento). Da quando è nato l’euro il Giappone è cresciuto in media dello 0,7 per cento contro l’ 1,3 nell’area dell’euro. Il motivo per cui, apparentemente, il debito in Giappone non è un problema è che esso è tutto detenuto da residenti, in gran parte dalle Poste, dalla Banca centrale e da altre istituzioni di quel Paese. È quindi, in fondo, una partita di giro regolata dallo Stato che ne determina i prezzi. Non c’è spread in Giappone per il semplice fatto che non c’è un mercato nel quale i titoli pubblici si confrontano con quelli di altri Paesi.
Vogliamo imitare il Giappone e lasciar crescere anche noi il debito, nonostante non sia servito a nulla in quel Paese, anzi probabilmente ne abbia ostacolato la crescita? Farlo è certamente possibile. L’Italia non ha un debito estero netto perché i prestiti che Stato e aziende private hanno contratto fuori dall’Italia sono compensati da altrettanti titoli esteri acquistati dalle famiglie e dalle nostre banche. Basterebbe azzerare queste posizioni – cioè vendere i titoli esteri che possediamo e ricomprarci i Btp detenuti all’estero – per diventare il Giappone. A quel punto potremmo permetterci di aumentare la spesa pubblica e al tempo stesso ridurre le tasse, lasciando crescere il debito.
Obbligare le famiglie a vendere i titoli esteri che possiedono e comprare Btp è relativamente facile: basta una legge che ricrei le condizioni degli anni 70 e 80, quando agli italiani era proibito possedere titoli esteri. Assai più complicato sarebbe obbligare le banche a fare altrettanto: probabilmente bisognerebbe nazionalizzarle perché nessun consiglio di amministrazione voterebbe di esporre la banca al rischio di un portafoglio composto solo di Btp e altre attività domestiche.
Tutto ciò è possibile, ma vorrebbe dire uscire dall’euro che è nato per fare il contrario: integrare i mercati dei capitali dell’Eurozona e diversificare il rischio distribuendolo nell’area. Vogliamo uscire dall’euro? Se la risposta è no, smettiamola di guardare al Giappone. Se la risposta è sì, allora si spieghi agli italiani quali sarebbero le conseguenze sul nostro commercio estero, sulla nostra posizione geopolitica, schiacciati fra Europa Occidentale e Russia, e sui risparmi degli italiani, trasformati in nuove lire svalutate.
Diversamente dal Giappone, il prezzo del nostro debito è determinato sul mercato. Ogni giorno lo Stato deve convincere gli investitori a comprare i suoi titoli. Se essi si preoccupano troppo del futuro dell’Italia, e smettono di acquistare, i tassi aumentano generando un pericoloso circolo vizioso: più spesa per interessi, più tasse, meno crescita, più preoccupazione, tassi ancora più alti.
Che fare quindi nei prossimi mesi? Nessuno chiede all’Italia di ridurre il debito in modo drastico in pochi anni. Ciò che ci viene chiesto è evitare che esso continui ad aumentare. E questo obiettivo va raggiunto senza danneggiare la crescita, già prossima allo zero.
La cosa assolutamente da evitare sono aumenti dell’Iva. Si è accumulata negli ultimi anni una valanga di evidenza sugli effetti di incrementi delle imposte, soprattutto in un Paese a crescita già bassa. Questi studi, sia accademici, sia del Fondo monetario internazionale e dell’Ocse, dimostrano che un aumento delle aliquote che generi maggiori entrate pari a un per cento del Pil ha un effetto recessivo sull’economia pari a oltre due punti di Pil nel triennio successivo.
Gli aumenti dell’Iva previsti dalle «clausole di salvaguardia» iscritte nel Documento di economia e finanza (Def) approvato una settimana fa dal Parlamento, valgono circa un punto e mezzo di Pil sia quest’anno che il prossimo. Il loro effetto recessivo è quindi stimabile in 4 punti di Pil in meno nell’arco di tre/quattro anni.
Gli stessi studi dimostrano che gli effetti recessivi di tagli alla spesa sono molto più bassi, quasi nulli: per una riduzione di un punto di Pil di spesa si stima una recessione al massimo di mezzo punto di Pil per un anno. Se poi i tagli fossero concentrati sulle spese meno produttive, non si toccassero gli investimenti pubblici, si salvaguardassero le famiglie meno abbienti riducendo spese che invece favoriscono le classi medio-alte, e si eliminassero tanti favori fiscali a questa o quella lobby, le cosiddette tax-expenditures, gli effetti recessivi ci potrebbero anche non essere. Soprattutto se il funzionamento dell’economia fosse agevolato da riforme che favoriscano la concorrenza là dove ve ne è di meno, cioè nel mercato dei servizi.
Il motivo per cui tagli alla spesa sono molto meno recessivi di aumenti delle imposte (in qualche caso recente come in Irlanda e nel Regno Unito durante il governo di David Cameron tagli alla spesa pubblica sono stati accompagnati da una crescita, e non da una riduzione del reddito) è che essi aumentano la fiducia delle imprese e quindi i loro investimenti, e ciò compensa ampiamente il taglio alla spesa dello Stato.
Ma come ridurre la spesa? Le ripetute esperienze di Spending Review degli ultimi sette anni mostrano che tagliare la spesa è una questione politica, non tecnica. È inutile illudersi: i due nuovi commissari alla Spending Review, i sottosegretari Laura Castelli e Massimo Garavaglia, non avranno più fortuna dei loro predecessori. I mille interessi che difendono ciascuna voce di spesa non si vincono con i commissari ma ponendo concorrenza e riduzione della spesa in cima all’agenda politica del governo. I due vicepresidenti del Consiglio, che hanno deciso di rimanere anche capi politici dei rispettivi partiti, avrebbero il peso per farlo. Ma dovrebbero esserne convinti. Invece girano l’Italia in una perenne campagna elettorale promettendo esattamente il contrario: più spesa, meno tasse, cioè più debito.