La Stampa, 25 aprile 2019
Mio padre Sergio Leone
Per Raffaella Leone, che all’epoca era una bambina, gli Spaghetti Western sono un grumo di memorie lontane, fatte di eventi straordinari che, ancora oggi, restano avvolti in un’aura di magia: «Ero molto piccola, ricordo che mi facevano entrare nelle roulotte e che mi mettevano sui cavalli. Quando girava mio padre ci portava tutti sui set, una cosa che mi piaceva moltissimo». A trent’anni dalla scomparsa (il 30 aprile dell’89) Sergio Leone è più vivo e presente che mai, citato dai registi del mondo, analizzato da critici e esperti che non smettono di proporne esegesi e riletture. Il 12 dicembre all’Ara Pacis si inaugura la mostra C’era una volta Sergio Leone, curata dal direttore della Cineteca di Bologna Gian Luca Farinelli e presentata, in anteprima a Parigi, lo scorso inverno, dalla Cinémathèque Française: «Sicuramente - dice Raffaella, produttrice e distributrice, alla guida, con il fratello Andrea, della Leone Film Group -, il peso di un nome così importante, sulle prime, l’ho avvertito. Però me ne sono anche liberata velocemente, ed è rimasto solo il senso di una bella eredità».
Ha iniziato come costumista. Per una figlia d’arte i primi passi non sono mai facili. A lei come è andata?
«Sui set ho sentito diffidenza, le persone tendono a vederti come una spia, poi capiscono e, anzi, a me è capitato di essere trattata con affetto. Il cognome resta, ma io ho imparato a viverlo come responsabilità e non come problema».
Ha scelto di occuparsi di cinema dal punto di vista industriale, perché?
«Sia io che mio fratello abbiamo un’indole creativa, ma anche pratica. Nostro padre era un sognatore, diceva di creare favole per adulti, ma possedeva pure il senso degli affari. Forse sono stati questi due aspetti a far emergere in noi l’intuito manageriale».
Oggi ovunque omaggi e manifestazioni che lo ricordano, ma, in passato, suo padre fu spesso oggetto di critiche aspre. Secondo lei perché?
«E’ vero, e, tra quegli stessi critici, c’è stato pure chi ha fatto ammenda. Penso che certi giudizi siano dovuti all’epoca in cui è vissuto. Tutto era molto politicizzato e ideologizzato, la critica era allineata, e chi aveva successo veniva bollato in senso negativo, come “nazional-popolare”. Si pensava “se fai i soldi, non sei intellettuale, e quindi non vai bene”. E poi mio padre non amava schierarsi, era disincantato».
Una personalità paterna così imponente, per le figlie può essere un problema. È difficile trovare uomini all’altezza. Le è successo?
«Oggi, a posteriori, potrei dire di sì. Poi, con la maturità, sono stata finalmente in grado di accompagnarmi a un uomo, nel vero senso della parola».
La sua casa è sempre stata piena di gente di cinema , attori, registi, aspiranti tali. Carlo Verdone parla spesso del legame con suo padre, lei che cosa ricorda?
«Con Carlo ho lavorato come costumista, in Bianco, rosso e verdone e in Troppo forte. Era ipocondriaco già da allora, lui e mio padre insieme erano buffi, avevano un rapporto ironico, Carlo era un figlioccio, Sergio si divertiva a punzecchiarlo, e, se lo riteneva, poteva anche rimproverarlo».
Qual è il film di Sergio Leone che preferisce?
«Di sicuro C’era una volta in America, è il suo film più completo e maturo. Mi piace perchè rivedo mio padre in tanti dei personaggi, riconosco il suo sguardo infantile e anche il sentimento di disillusione. Non che negli altri film queste cose non ci siano, ma in quel film c’è la “summa” di tutto quello ha fatto».
Robert De Niro, che impressione le ha fatto?
«Una persona molto permalosa, ma anche un grande attore, un professionista incredibile e nella vita, fuori dal set, davvero piacevole».
Chi è, secondo lei, il vero erede di Sergio Leone?
«Senza alcun dubbio Quentin Tarantino, è l’unico che ha un suo stile ben preciso, riconoscibile, la stessa genialità di mio padre».
A che cosa si deve la permanenza del mito Leone, perchè ha lasciato un’impronta così forte, nel pubblico, ma anche nei suoi colleghi, di ogni parte del mondo?
«Penso sia tutto dovuto all’amore profondo che ha nutrito nei confronti del cinema. Lo ha trasformato, lasciando segni evidenti, scegliendo un genere e un tipo di narrazione mitologica, epica, in cui le persone possono riconoscersi. I temi affrontati nei suoi film sono universali, rivederli è come farsi raccontare l’Eneide e l’Odissea, non ci si stanca mai. E poi ci sono l’uso del suono e della musica, gli aspetti tecnici, le riprese realizzate senza i supporti di oggi, magari stando seduto sulle spalle di qualcuno, come in una vecchia foto che ho visto tante volte».
Il cinema oggi subisce la concorrenza delle serie, a suo padre sarebbero piaciute?
«Credo che le avrebbe adorate, amava i lunghi racconti, sarebbe stato felicissimo di poter fare film di 6-7 ore. In passato i prodotti per la tv erano considerati di serie B, e invece si è dimostrato che possono avere contenuti importanti, in grado di attrarre il pubblico».
Sta per andare al Festival di Cannes, e quindi al «Marchè». In base a che cosa decide di comprare o meno un film?
«Le considerazioni sono tante, vanno dalla valutazione della sceneggiatura al confronto con i precedenti incassi dello stesso regista, ma è importante anche il lavoro di “scouting” e, come in tutte le cose, ci vuole coraggio e un po’ di fortuna».