la Repubblica, 25 aprile 2019
Il rosso dei Comuni arriva a 39 miliardi
Trentanove. Eccolo il numero magico, anzi “maledetto”, che soppesa il macigno del debito comunale italiano. Trentanove miliardi di euro sono l’ammontare complessivo dell’esposizione finanziaria, 12 dei quali riguardano i municipi maggiori, ovvero i capoluoghi delle città metropolitane. Ai 39 miliardi vanno poi aggiunti i 12 miliardi del debito pregresso del Comune di Roma sotto la gestione del Commissario. Tornando all’interno del perimetro dei 39 miliardi, poco meno di 30 sono costituiti da mutui con la Cassa depositi e prestiti, 7 con le banche e 2,2 con il Tesoro.
Numeri che in un sistema economico sano sarebbero un semplice passaggio del circolo virtuoso tra le entrate garantite dai contribuenti e le uscite per fornire servizi efficienti e costruire infrastrutture, ma nel nostro Paese fotografano il coacervo di rapporti tra Stato centrale e enti locali. Causa, insieme ad altre, dell’emergenza del debito italiano e dell’insopportabile peso della fiscalità su famiglie e imprese. «Bene trovare una soluzione per Roma – dice il presidente dell’Associazione nazionale Comuni italiani, e sindaco di Bari, Antonio Decaro – ma serve una ristrutturazione del debito per tutti i municipi del Paese che pagano interessi ormai insostenibili. Intervenga lo Stato, come ha fatto per le Regioni» Che non si tratti di un circolo virtuoso lo attestano, al di là del caso della Capitale, anche altri numeri: secondo la Corte dei conti tra il 1989 e il 2017 circa 800 Comuni ( dunque il 10% del totale) hanno rischiato la bancarotta, mentre i dati elaborati dall’Università Ca’ Foscari indicano in 97 gli enti locali che tra il 2014 e il 2017 hanno approvato delibere di “dissesto finanziario” non essendo in grado di assolvere alle «funzioni e ai servizi indispensabili» o a far fronte ai creditori. Si tratta di poco più dell’ 1,2% del totale, ma parafrasando Enrico Cuccia le percentuali non si contano, si pesano: lo dimostra il cosiddetto “indice di sostenibilità dei debiti finanziari” riferito ai Comuni capoluogo nelle 14 città metropolitane. Vale a dire i centri maggiori del Paese. L’indice misura il rapporto percentuale fra la spesa per interessi più l’estinzione anticipata del debito da un lato e, dall’altro, il gettito dei tributi, dei trasferimenti e delle tariffe. Ebbene, la graduatoria del rischio è guidata da Torino, con un indice del 19,02%, seguita da Genova ( 13,94%), Napoli ( 12,41%), Reggio Calabria (12,34%) e via via tutte le altre dieci, con Cagliari la più “tranquilla” ( 0,90%) preceduta da Roma (1,48%). Ma quest’ultimo caso è solo un’illusione ottica, perché l’indice è calcolato su 1,034 miliardi di debito “nuovo”, senza contare i 12 del pregresso in capo al Commissario. Da considerare adeguatamente anche il debitocomunale pro capite, un dato che fa capire il fardello che ognuno di noi (e soprattutto i nostri figli e nipoti) portiamo sulle spalle, in aggiunta a quello del debito nazionale. Si va dai 3181 euro di Torino ai 2733 di Milano, dai 1823 di Catania ai 1281 di Napoli. Oltre a Roma, sono Reggio Calabria e Catania a rappresentare le emergenze più “calde”: nella città dello Stretto la Consulta ha bocciato il piano trentennale di rientro del debito e la Corte dei conti ha intimato il ripianamento in 10 anni. Alle falde dell’Etna invece il rendiconto è stato approvato prima della verifica della Corte dei conti che ha evidenziato nuovo debito e, dunque, si è materializzato il dissesto. Al Nord c’è Alessandria che ha dichiarato il dissesto nel 2012 per un debito di 46 milioni di euro.
I costi della eventuale ristrutturazione del debito comunale finirebbe nel mare magnum di quello nazionale. Con un rischio ulteriore in caso di rinegoziazione della fetta in capo alla Cdp, perché la Cassa potrebbe essere ricompresa nel perimetro del debito pubblico. Appesantendo ancora di più quello “zaino” che grava su ogni singolo contribuente. Insomma, la solita storia italiana: “paga Pantalone”.