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 2019  aprile 24 Mercoledì calendario

Giampiero Mughini: «La mia generazione mi ha lasciato solo»

Giampiero Mughini, giornalista, è nato a Catania.
«Tutto quello che mi è accaduto quarant’anni fa è dentro di me infinitamente più vivo e presente che non quello che mi è accaduto l’altro ieri».
Sarebbe potuto essere questo l’incipit del bellissimo libro che Giampiero Mughini annuncia come il suo ultimo (Memorie di un rinnegato, Bompiani, da oggi in libreria). Oppure l’incipit sarebbe potuto essere un altro tra molti passaggi di un’opera sofferta, che in effetti conclude un lungo ciclo in cui a ogni occasione l’autore ha lanciato un grido di richiamo alla propria generazione, nella speranza di ritrovare una sintonia, un’appartenenza, un abbraccio che con rarissime eccezioni – tipo le cene mensili con Ernesto Galli della Loggia, a consigliarsi libri che di solito l’altro ha già letto – appaiono irrimediabilmente perduti.
Anche perché Mughini ha giudizi severi come questo: «Quando alcuni di coloro che Marino aveva indicato come autori o responsabili del delitto si misero a farfugliare che non ricordavano dov’erano quando seppero dell’omicidio Calabresi, pensai che stessero sprofondando nel disonore da quanto era palmare la loro menzogna. Ci sono tre immagini che la mia generazione conserva, ciascuna scolpita nel marmo della memoria. Il momento in cui Miriam Campanella telefonò nella casa dove stavamo facendo una riunione di redazione di “Giovane critica”, a dirci che avevano ucciso John F. Kennedy. Il momento in cui sotto le finestre della mia casa romana di via della Trinità dei Pellegrini passò un’auto, da cui un ragazzo della Federazione giovanile comunista munito di un megafono annunciava che non lontano da casa mia era stato trovato il cadavere di Aldo Moro. Il momento in cui seppi dell’assassinio di Luigi Calabresi».
Ecco, l’assassinio del commissario. È solo uno dei tanti spunti del libro. Ma si capisce bene che l’autore lo considera uno dei nodi della propria vita. Non a caso questa autobiografia intellettuale – e morale – si apre con il biglietto di poche righe con cui Mughini restituisce una lettera che considera offensiva a Luciano Della Mea, che un tempo gli era stato fratello maggiore. E l’autore – con un paio di pantaloni di pelle rossa comprati a Parigi – era nella casa pisana di Della Mea, il giorno del comizio di Sofri in morte di Franco Serantini, l’anarchico figlio di nessuno picchiato a sangue e lasciato morire in carcere. «A un certo punto smise di piovere, tant’è vero che Della Mea e io decidemmo di avviarci verso piazza San Silvestro ad annusare i residui del comizio – si legge nelle Memorie di un rinnegato —. Avremo fatto dieci-quindici minuti a piedi. Non cadeva più una sola goccia d’acqua. Man mano che ci avvicinavamo a piazza San Silvestro vedevamo rifluire i ragazzi che avevano partecipato al comizio di Lotta continua. Se Sofri e Marino avevano avuto l’agio di incontrarsi e parlare, in quel momento? A mio parere, sì. E anche se questo non ci dice affatto che cosa si siano detti davvero i due, se davvero Marino abbia chiesto una sorta di autorizzazione morale a partecipare a un omicidio e se davvero Sofri gliel’abbia data».
Sofri aveva chiesto a Mughini di fare il direttore responsabile di «Mo’ che il tempo s’avvicina», un periodico di Lotta continua, cui Mughini mai lavorò ma che gli costò ventisei processi (tre le condanne): da liberale, pensava che nessuna voce dovesse essere soffocata. Ma ancora oggi a quelli di Lotta continua non perdona di aver ripubblicato – pochi giorni dopo il delitto Calabresi —, sul loro giornale divenuto quotidiano, il passo di Senza tregua di Giovanni Pesce in cui il capo dei Gap uccide il colonnello Cesarini, «un bruto, una specie di gigante, capo della repressione alla Caproni»; «pazzesco – conclude Mughini —, e come se ci fosse una qualche parentela possibile tra il feroce e gigantesco repubblichino e il commissario trentaquattrenne, di cui Adriano Sofri riconoscerà trent’anni dopo che lui non c’era nella stanza al quarto piano della questura di Milano da cui l’anarchico Giuseppe Pinelli cadde innocente nella fatale notte del 15 dicembre 1969».
Ma sarebbe sbagliato schiacciare la lettura delle Memorie di un rinnegato su quella tragedia, per quanto dolorosa. Il vero filo rosso è la solitudine esistenziale dell’autore, scelta, rivendicata, ma anche subìta come una condanna, con il carico di sofferenze che la solitudine comporta. In nessuno dei giornali in cui l’autore ha lavorato sostiene di essersi sentito davvero a casa, in nessuno si è «tolto l’impermeabile», per usare la sua espressione. Quando c’è un direttore che lo stima e lo valorizza, la direzione dura sempre troppo poco, come accade a Lamberto Sechi all’«Europeo» o a Claudio Rinaldi prima all’«Europeo» poi a «Panorama». Con Indro Montanelli è innamoramento, finito quando Mughini firma sull’«Indipendente» di Vittorio Feltri. I suoi coetanei non gli perdonano la stima per Craxi, l’apertura alla nuova destra dei primi anni Ottanta – l’abbraccio con Benito Paolone già capo dei fascisti di Catania, l’amicizia con Giano Accame, l’intervista tormentata con Pino Rauti —, il rifiuto di unirsi alla piazza antiberlusconiana. Certo non aiuta a ricucire il successo televisivo, legato alla trasmissione di grande ascolto con Loretta Goggi (Mughini porta nel preserale di RaiUno le storie di Tommaso Landolfi e Jean Moulin) e poi ai talk sportivi al fianco di conduttori molto seguiti, da Aldo Biscardi a Pierluigi Pardo.
Un successo che in fondo a Mughini non interessa, se è vero che dalle pagine più pop delle Memorie subito si fugge a Parigi alla ricerca vana di un libro – una delle manie intellettuali dell’autore – poi rinvenuto anni dopo su Amazon: l’autobiografia di un resistente comunista francese, che a Nantes uccide a freddo un ufficiale tedesco, consapevole di provocare una rappresaglia che porterà a morte 48 francesi innocenti. Perché sulla storia di Mughini incombe la memoria della guerra dei padri, la guerra civile quella vera, da rivisitare nei suoi dogmi e anche da tenere come punto di riferimento per misurare l’immensa distanza che la separa da quella mimesi, da quella ginnastica, da quella farsa per quanto sanguinosa, in cui negli anni Settanta una parte di quella generazione finì per giocarsi la vita.