Corriere della Sera, 24 aprile 2019
I capolavori? Si capiscono in tram
«Certe cose non le capisco»: potrebbe essere una frase detta davanti alla radiografia di un dentista o a un’azione calcistica, pronunciata da chi non mastica questo sport. O, più spesso, è facile sentirla davanti a un’opera d’arte contemporanea, come un taglio di Fontana o l’orinatoio di Duchamp. È vero, certe cose non si capiscono perché l’arte – come «il calcio, la politica, la musica sinfonica» – deve essere «frequentata».
Nel suo volume A piedi nudi nell’arte (Solferino) Carlo Vanoni invita il lettore a «frequentare» l’arte, in particolare quella contemporanea. Gli basta una passeggiata di 24 ore in città per attraversare secoli di immagini, colori, idee, simboli. Partendo dal presupposto che tutta l’arte è contemporanea, perché sempre coeva alla sua epoca, lo storico dell’arte ne ripercorre le rivoluzioni e i significati.
Per esempio, il tatuaggio a forma di stella di una commessa riporta alla memoria del protagonista Tonsure (1919), una foto in cui Man Ray si fa ritrarre con una stella rasata sulla nuca: uno dei primi esempi di Body Art. La riflessione sul corpo chiama in causa Giotto e la sua rappresentazione di spazio, corpo e sentimento (dopo l’immobilismo bizantino è il primo a introdurre emozioni e tridimensionalità). La Body Art estremizza questa rivoluzione con la carne viva dell’artista, «che si assume la responsabilità dell’azione, fino a mettere in gioco il proprio corpo». Nel 1974 Gina Pane (1939-1990) si taglia le braccia con spine e lamette e lo stesso anno Marina Abramovic nella performance Rythm 0 si lascia martoriare dagli spettatori: è il supplizio, al centro di tutta l’iconografia cristiana. E se prima il dolore passava attraverso i Cristi in croce di Guido Reni o Mantegna, oggi si esprime nel corpo vivo, tagliato, tatuato. Questa è bellezza? Forse no. Ma «l’arte, come la vita, non è fatta solo di bellezza, ma anche di drammi, di ferite profonde (...), l’arte parla della vita perché a farla sono gli artisti, esseri umani».
Anche il modo di guardare a un corpo è cambiato. Davanti a un nudo di Amedeo Modigliani in mostra, il protagonista rimane rapito dalla pelle «viva, calda» che invita al desiderio. I modelli di Modigliani altro non sono che le evoluzioni della Venere di Botticelli (1482 circa), pudica, innocente, elegante, e della Galatea di Raffaello (1512), che «sfila in un tripudio di corpi», sensuale e disinibita. Le donne sono entrambe nude, ma cambia il linguaggio, che è «motore dell’arte». Nel 1863 Édouard Manet dipinge la Colazione sull’erba: al centro una donna non più nuda, ma svestita: sta nascendo l’arte moderna. Gli impressionisti parlano una nuova lingua – sono i primi a scattare foto con lo smartphone anziché con il rullino, pensa il protagonista uscendo da un negozio di telefonia – non cercano più la perfezione tecnica, ma l’immediatezza e la freschezza della realtà. Per gli accademici benpensanti la pittura «contemporanea» stava morendo. La storia si ripete.
Lo stesso cambio di paradigma avviene con l’arte contemporanea; questa nasce quando la pittura «da matrioska madre, diventa matrioska seme»: le immagini del mondo nel Novecento vengono diffuse da mezzi più potenti: la televisione, la fotografia, il cinema. L’arte deve ripensarsi; con Kandinskij la pittura diventa forma e colore senza soggetto, per la prima volta rappresenta sé stessa. Il colore prende voce: il nero di Malevic sostituisce l’arte sacra, il blu di Yves Klein s’impone come nota unica, «piena di vita», i tagli di Fontana superano «la superficie di un’epoca in cui le immagini viaggiano nello spazio». Si oltrepassano i confini di muro e tele.
Su un tram, il protagonista osserva la luce, le teste delle persone, affiancate come bottiglie. Pensa a Giorgio Morandi: le sue pennellate di luce, come preghiere, sono un tributo a tutta la pittura che lo ha preceduto, perché questa «non sa di essere astratta o figurativa, ma è». Questo è il nuovo atteggiamento dei contemporanei. E su quel tram, metafora del ’900, il mondo cambia velocemente a ogni fermata, mentre nel suo angolo se ne sta Morandi, silenzioso osservatore di luce.
Forse è l’essersi allontanata dalla bellezza per riflettere il suo linguaggio ad aver allontanato l’arte dalla gente. Eppure di vita parla, ne fa parte e la rappresenta, anche quando la vita non c’è più. Come l’opera del cubano Félix González-Torres (1957-1996), un’installazione di lampadine accese in ricordo del suo compagno scomparso. Le lampadine non sono che questo: «nostalgia di una luce che si è spenta». E lì c’è tutto il nostro universo: l’amore, la perdita, la fragilità dell’uomo, la caducità della vita. E forse qualcosa in più; c’è l’arte, quella che a volte è «risposta alle nostre domande».