Corriere della Sera, 24 aprile 2019
L’enigma Stauffenberg
BERLINO Poche figure uniscono e rendono orgogliosi i tedeschi come quella di Claus Schenk Graf von Stauffenberg, l’eroe dell’Operazione Valchiria, il fallito attentato a Hitler del 20 luglio 1944. Nella complessità della Vergangenheitsbewältigung, il superamento del passato nazista che assilla la Germania, Stauffenberg e i suoi congiurati sono quelli che con il loro sacrificio hanno riscattato l’onore nazionale, liberando almeno parzialmente i tedeschi dalla colpa collettiva.
La resistenza nazional-conservatrice contro il nazionalsocialismo diventa così la tragica testimonianza di un’altra e migliore Germania. «Il loro sangue – disse Theodor Heuss, il primo presidente della Repubblica federale tedesca – ha lavato la vergogna in cui Hitler aveva costretto noi tedeschi». Anche la letteratura ha celebrato il mito liberatorio e fondativo del 20 luglio: nel romanzo L’amico ritrovato di Fred Uhlman, il protagonista, l’ebreo Hans Schwarz, si riconcilia idealmente con Konradin von Hohenfels, l’amico d’infanzia tedesco diventato nazista, quando dopo la guerra apprende che è stato giustiziato per aver preso parte all’attentato di Rastenburg.
Sono passati 75 anni dalla bomba nella Tana del Lupo. Ma alla vigilia del giubileo, che la Germania si prepara a celebrare in grande stile, una nuova biografia di von Stauffenberg ne rivede criticamente la figura, contestando la sua opposizione al nazismo come ideologia e negando che abbia agito per ragioni di coscienza. Appena uscito in Germania per i tipi di Blessing, il libro di Thomas Karlauf ha scatenato reazioni molto polemiche, non ultima quella di Sophie von Bechtolsheim, storica ma anche nipote di Stauffenberg.
Non ci fu alcuna motivazione morale, secondo Karlauf, nel tentativo di colpo di Stato di cui Stauffenberg divenne la figura più rappresentativa insieme ai generali Henning von Tresckow e Ludwig Beck. Egli agì unicamente «sulla base di considerazioni politiche e militari». Convinti, dopo la sconfitta di Stalingrado che la guerra fosse ormai perduta, i congiurati volevano «preservare il popolo tedesco dalla barbarie satanica del bolscevismo», instaurando una dittatura militare e cercando di negoziare velocemente una «pace separata con le potenze occidentali». L’eliminazione di Hitler era la condizione imprescindibile per il successo del loro piano.
Ma nulla, secondo l’autore, Stauffenberg ha che fare con l’immagine di eroe della democrazia e difensore dei diritti umani, costruita dopo la guerra per «soddisfare il bisogno di legittimazione morale della giovane Repubblica federale». A sostegno della sua tesi, Karlauf cita un documento autografo di sei pagine, nel quale Stauffenberg spiega le ragioni dell’attentato, che l’ufficiale aveva addosso al momento del suo arresto e del quale esiste una sintesi (fin qui inedita) fatta dalla Gestapo: «Di tutti i possibili motivi, non c’è alcuna menzione dello sterminio degli ebrei, in quel momento in pieno svolgimento». Stauffenberg, così scrive lo storico, «non aveva alcuna idea della democrazia. La Repubblica di Weimar era per lui un luogo di discussioni inutili, inefficiente e lacerata dai partiti e dagli interessi particolari».
Ecco perché, sin dall’inizio, egli fu un sostenitore entusiasta del nazionalsocialismo: i suoi diari raccontano di un’adesione piena al regime e alle sue imprese di guerra, a cominciare dall’invasione della Polonia, «una terra triste e primitiva», nel 1939, a cui egli prese parte con la X armata. Ancora nel 1941, quando molti dei suoi colleghi dello Stato maggiore espressero seri dubbi sulla saggezza dell’attacco all’Unione Sovietica, Stauffenberg lodava il genio di Hitler, una «personalità superiore e dotata di grande forza di volontà». «Il padre di quest’uomo – scrisse in quei giorni a proposito del Führer – non era un piccolo cittadino. Il padre di quest’uomo è la guerra».
La conclusione di Karlauf, il quale riconosce comunque a Stauffenberg «un coraggio e una determinazione che meritano rispetto», è che egli, prima di imbarcarsi nella congiura del 20 luglio, «condivise in gran parte le idee e gli obiettivi del nazismo». E se è vero che già nell’estate del 1942 iniziò il suo percorso di straniamento dal regime, che lo avrebbe condotto alla determinazione di dover eliminare Hitler, la sua non divenne mai una «rivolta delle coscienze».
Contro questa nuova lettura insorge però Sophie Freifrau von Bechtolsheim, studiosa di storia e nipote di Stauffenberg, che in un lungo articolo su «Die Zeit» contesta a Karlauf metodologia, interpretazione delle fonti e un uso spregiudicato e selettivo delle citazioni. E soprattutto attacca la tesi di fondo dell’autore: «Uccidere un tiranno non può essere altro che un atto di coscienza». Von Bechtolsheim concede che le idee del suo avo non coincidano con quelle di un democratico odierno, ma questo non autorizza Karlauf a negare che i congiurati del 20 luglio agissero mossi da impulso morale. Quello dell’operazione Valchiria, secondo la storica, è un processo individuale e solitario, che porta ognuno dei protagonisti, tutti con retroterra culturali e idee di società affatto diverse, a una decisione comune. E comunque, aggiunge con una legittima punta di veleno, «il primo a negare che i congiurati agissero per ragioni di coscienza fu niente di meno che Hitler in persona, quando dopo il 20 luglio parlò di una “piccola cricca di ufficiali ambiziosi e incoscienti”». Questa, conclude von Bechtolsheim, non è una questione di famiglia: «Se non contestassimo le tesi di Karlauf, mineremmo l’eredità che il 20 luglio 1944 ci ha lasciato».