Mister Saltz, lei si considera un attivista, un guru o semplicemente un critico d’arte?
«Non sono mai andato a scuola, non ho diplomi, ho iniziato a scrivere quando avevo già quarant’anni. Sono stato un artista fallito quando avevo vent’anni e poi un autista di camion fino ai quaranta. Sono un lettore molto attento e non capisco il 90 per cento di quello che sta scritto sulle riviste d’arte specializzate. In realtà sono un critico folk».
Però ha vinto il Pulitzer. Quante volte è stato finalista?
«Due volte. Lo scorso anno ero seduto esattamente dove sono seduto adesso, alla scrivania vicino a quella di mia moglie Roberta. Vidi un’email di David Wallace-Wells, il mio caporedattore al New York Magazine, che diceva: “Pulitzer!”. Pensai lo avesse vinto lui, invece lo avevo vinto io!».
È interessante il fatto che lei non ha vinto il Pulitzer per un articolo di critica, ma per uno che racconta la storia della sua vita.
«Non ho mai creduto che la critica d’arte dovesse stare sempre sullo stesso binario. Oggi è arrivato il momento di ridefinire che cosa vuol dire critica d’arte. Non bisogna essere noiosi e ripetitivi. I lettori sono sempre di più e questo perché abbiamo lavorato con coerenza, capendo che chi ci leggeva cambiava».
Questo cambiamento della critica di cui parla è una conseguenza dell’impatto che i social network hanno avuto nel rapporto con i lettori?
«I social media hanno aiutato la critica a diventare più rilevante di quanto lo sia mai stata. Prima c’era gente come quel prepotente di Clement Greenberg, teorico dell’espressionismo astratto, o la rivista October che dicevano cosa ci doveva piacere e cosa no. I social media ora consentono non solo di autopubblicare quello che vogliamo, ma hanno anche cambiato la struttura vera e propria della critica. Prima era qualcosa di calato dall’alto, adesso è diventata un dialogo. È un cambiamento impressionante. Rende il critico tanto vulnerabile quanto l’arte che critica. La nostra autorità non è più su un asse verticale, ma orizzontale. Questo ha cambiato la mia vita».
Lei è una celebrità su diversi media: parola scritta, conferenze pubbliche, social. È tutto collegato oppure i diversi media viaggiano su binari paralleli?
«Fa tutto parte della stessa matassa. Qualsiasi cosa sia necessaria per ampliare la conversazione sull’arte è positiva. È un tentativo, per quanto fallimentare, di non parlare sempre dei soliti 155 artisti principalmente maschi bianchi, che fanno parte del mercato e dei quali la stampa sembra non essere in grado di fare a meno».
Tra i social media, quale funziona meglio per l’arte?
«Facebook è principalmente per gente della mia età. Twitter è forte, ma il numero di caratteri limitato per me risulta castrante perché sono un po’ prolisso. Instagram è il migliore per la critica d’arte perché è un linguaggio principalmente fatto di immagini. Fra tutte e tre queste piattaforme, ho circa un milione di follower. Io scrivo per il lettore e il mio principale obiettivo è riuscire a far leggere quello che scrivo dall’inizio alla fine. Se non accade, è soltanto colpa mia».
In che cosa crede di più: la politica o l’arte?
«Credo che tutta l’arte sia piena di quello che succede nella politica perché è fatta da gente che vive in questo momento politico. C’è chi pretende che l’arte parli di qualcosa di superiore, come la bellezza in una sua dimensione autonoma e pura. Quello che rende l’arte politica non ha niente a che fare con il suo soggetto. Gli artisti che sono stati rivoluzionari sono quelli che hanno cambiato il nostro modo di vedere il mondo e il modo in cui il mondo è. Prendiamo Warhol, al quale personalmente forse importava molto poco delle rivolte razziali degli anni Sessanta, ma le ha notate e le ha dipinte. Notare qualcosa e poi metterlo nella propria arte, a prescindere dal nostro coinvolgimento con il soggetto, è di per sé un gesto politico. Purtroppo la maggior parte di quello che si vuole chiamare arte è pessima. Compreso ciò che arriva nelle tante Biennali sparse in giro per il mondo. Perché queste sono fatte di opere che parlano per lo più al club esclusivo degli addetti ai lavori del mondo dell’arte. Questo tipo di arte a me non interessa. Quando vedo banali foto in bianco e nero di nuvole e mi dicono che parlano della violenza razziale negli Stati Uniti, perdo la testa».
New York è ancora l’epicentro del mondo dell’arte?
«Sono innamorato di New York: è ancora un posto molto denso, dove artisti e galleristi possono comunicare fra di loro. Tuttavia l’85 per cento delle mostre qui sono cattive. Ma anche l’85 per cento dell’arte realizzata nel Rinascimento era cattiva. Quando camminiamo in un museo, ignoriamo l’85 per cento delle opere che ci sono. Il mercato ha sempre toccato una percentuale molto bassa del mondo dell’arte. Gli artisti che vivono qui devono accettare che è molto probabile che non si arricchiranno mai. Ma quello che funziona ancora a New York è il senso di comunità».
Il mondo dell’arte è ostaggio del politicamente corretto?
«Il mondo dell’arte cambia come è giusto che cambi. Credo sia arrivato il momento che artiste donne e artisti neri possano avere una carriera, anche se dovessero essere mediocri come lo sono stati gli artisti bianchi e maschi che in passato hanno avuto comunque la possibilità di esprimersi. Per i prossimi quattro anni, i musei dovrebbero esporre solo donne e artisti neri. In ogni caso, a me interessano gli artisti vivi che lavorano ora. Troppi curatori stanno usando il facile trucchetto di scoprire e mostrare artisti morti di seconda categoria che vengono da qualche lontano Paese. Per questo mi piace l’idea di Ralph Rugoff di presentare alla prossima Biennale di Venezia, curata da lui, soltanto artisti viventi. Avere fiducia nel presente è importante. In confronto ai problemi del clima, il politicamente corretto è robetta. Per questo tutta l’arte fatta oggi è importante. Potrebbe essere l’ultima che riusciremo a vedere davvero».
C’è una recensione anche positiva che si pente di avere scritto?
«Mi sono preso un sacco di insulti per aver scritto che mi piacevano i dipinti fatti da George W. Bush di se stesso sotto la doccia o nella vasca da bagno. Ma ancora oggi se li trovassi ad un mercatino delle pulci sarei disposto a comprarli a qualsiasi prezzo».
Mi dica tre regole d’oro che dovrebbe seguire il perfetto critico d’arte.
«1) Bisogna essere radicali e scrivere sia di quello che piace che di quello che non piace e non scrivere sempre che tutto è bello.
2) Scrivere per il lettore: non per l’artista o il gallerista. Per la propria credibilità, scrivere solo ed esclusivamente dell’arte.
3) Lavorare, lavorare, lavorare e consegnare sempre l’articolo in tempo».
Che cosa significa per lei “potere”?
«Il potere è credibilità. Puoi scrivere per il più importante giornale del mondo, ma se non hai credibilità è inutile. Non ho mai pensato di avere veramente potere. Ho scritto pessime recensioni di mostre di famosissimi artisti e non è successo nulla. Ho scritto ottime recensioni di mostre di emeriti sconosciuti e per loro non è cambiato praticamente niente. Il potere è un’illusione».