la Repubblica, 24 aprile 2019
Le donne manager guadagnano sei volte meno dei maschi
L’Olimpo dei Paperoni di Piazza Affari resta un club per soli uomini o quasi. I numeri parlano da soli: tra i 250 manager più pagati della Borsa di Milano nel 2018, le donne sono solo 17. Rare come panda e costrette oltretutto ad accontentarsi di stipendi molto più bassi di quelli dei loro colleghi: i dieci maschi più ricchi del listino si sono messi in tasca in media una busta paga di 8,7 milioni a testa. Le dieci super-dirigenti al femminile si sono dovute accontentare (si fa ovviamente per dire) di 1,4 milioni. Tradotto in soldoni: gli uomini ai vertici delle grandi società quotate guadagnano sei volte più delle donne. Con buona pace di quelle quote rosa che – perlomeno sul mercato azionario italiano – si sono rivelate una rivoluzione riuscita solo a metà.
Il bicchiere mezzo pieno, parlando di discriminazioni di genere a Piazza Affari, è quello della “rappresentanza”. Nel 2011 il 93% dei consiglieri d’amministrazione erano maschi. L’introduzione della Legge Golfo-Mosca, che obbliga le aziende a garantire alle donne un terzo dei posti in consiglio, ha avuto l’effetto di smuovere un po’ le acque e oggi la percentuale al femminile dei cda è salita (per fortuna) dal 7 al 36%. Il loro peso specifico però, almeno a giudicare dai ruoli che ricoprono e da quanto sono pagate, è rimasto marginale: nel 2018 solo 14 delle quasi 300 aziende quotate aveva una donna come amministratore delegato. Più o meno lo stesso numero di cinque anni prima. E sul fronte delle remunerazioni le differenze restano abissali. Quarantanove dei 50 dirigenti più pagati in Borsa sono maschi. L’unica mosca bianca in questo stuolo di manager benedetti da un cromosoma Y in più è Alessandra Gritti, vice-presidente e amministratore delegato di Tamburi Investment Partners (Tip) che ha guadagnato 4,3 milioni grazie a un meccanismo retributivo che – come succede ad altri tre colleghi di sesso opposto – le riconosce una quota percentuale di ricavi e utili della banca d’affari. Dietro di lei, parlando di Paperoni al femminile, c’è il vuoto: sul secondo gradino del podio – a grande distanza – c’è Monica Mondardini della Cir (primo azionista di Gedi, editore di Repubblica) con 1,8 milioni, capofila di uno sparuto gruppetto di sei donne che prendono tra 1 e 2 milioni di stipendio, fascia in cui i maschietti sono ben 74. Percentuale anacronistica, rispettata anche scendendo di un piano alle buste paga tra i 500 mila euro e il milione, dove gli uomini stravincono un’altra volta 108 a 11.
Anche nella sfera pubblica – perlomeno per quella parte quotata in Borsa – le quote di genere sono di un rosa un po’ pallido: L’unica ad al femminile è Roberta Neri di Enav, che guadagna 840 mila euro. L’86% in meno di quanto prende Claudio Descalzi in Eni, un sesto dello stipendio di Francesco Starace in Enel, un terzo dell’ad di Saipem. Una sproporzione compensata in parte dal fatto che i quattro presidenti di Poste, Enel, Eni e Terna sono donne.
Fuori dalla Borsa, invece, le cose vanno un po’ meglio. L’Italia, stando a Eurostat, è uno dei paesi più virtuosi del Vecchio continente sul fronte del gender-gap degli stipendi: nel 2017 (ultimo dato disponibile) le donne nel nostro paese guadagnavano a parità di ruolo il 5% in meno degli uomini. Tanto, ma meglio del resto d’Europa dove la media è al 16% e dove persino i virtuosissimi paesi scandinavi fanno peggio di noi, con la Norvegia al 14,3% e la Finlandia – la nazione più felice del mondo (forse solo per i maschi) – al 16,7%.