Il Messaggero, 24 aprile 2019
Il caso dell’’Anpi, senza più i partigiani
Il numero dei partigiani, sul finire del fascismo, man mano che avanzavano gli alleati e la lotta si faceva meno pericolosa, ebbe un crescendo come quello del Bolero di Ravel. 10mila furono i combattenti dopo l’8 settembre del 43, poi 20-30 mila nel febbraio-marzo del 44 e successivamente – i numeri certificati sono usciti sul Portale dell’Archivio centrale dello Stato – diventarono 130mila nei giorni precedenti il 25 aprile del 45, quando ci fu la Liberazione. Nei giorni successivi, a bocce ferme o quasi, a pericolo scampato, i dati ufficiali dicono che i partigiani arrivarono a 250mila.
LA COINCIDENZA
Ma la cifra che interessa è quella del 25 aprile e in quella data erano, appunto, 130mila. Proprio quanti sono, oggi, gli iscritti all’Anpi. Curiosa coincidenza matematica. Quindi sono tutti vivi e vegeti i partigiani del 25 aprile del 45? Ma figuriamoci. Anzi ne sono rimasti in vita ben pochi. Perché un combattente partigiano quarantenne nel 45 (età media dei comandanti di quelle brigate) adesso avrebbe 124 anni. Un trentenne di allora avrebbe oggi 114 anni. Un ventenne in armi contro i nazifascisti in quell’Italia da guerra civile ormai sarebbe un 94enne. E qualcuno in vita ancora c’è.
CIFRE
Ma di partigiani veri (o accreditati come tali) nell’Anpi dei 130mila iscritti se ne contano pochi. E la cifra delle vecchie glorie, fatalmente, col passare del tempo s’assottiglia sempre di più. In un andamento opposto a quello che accadde dopo la Liberazione, quando si trattò di riscuotere la pensione da partigiano. I 250mila del post 25 aprile del 45 sarebbero lievitati a 650mila, sempre stime dell’Archivio centrale di Stato, nel momento di avanzare la richiesta di riconoscimento (in gran parte non documentate) come combattente della Resistenza anti-fascista nelle brigate Garibaldi, nel Corpo dei volontari della libertà e affini. Se si veniva annoverati nelle liste dei miliziani, si conquistava una paghetta non indifferente: tra le mille e le cinquemila lire.
EPOPEA MINORITARIA
E comunque, l’epopea partigiana fu tutt’altro che maggioritaria. Anzi, non fu affatto un fenomeno di massa, come ormai è chiaro a tutti gli studiosi, la Resistenza italiana. Mentre nel suo piccolo – i paradossi della storia! – sembra quasi un’organizzazione di massa l’attuale Anpi con i suoi 130mila tesserati. E così questa – che come in tutti i 25 aprile sta giocando da protagonista in queste ore e tiene alta la guardia contro il «ritorno del fascismo» nelle celebrazioni e nei picchetti – è un’associazione di partigiani senza partigiani ma partigiana. Ossia che fa politica. Non rappresenta più, per mancanza di materia prima, l’esercito (esiguo) dei combattenti di 75 anni fa e potrebbe o dovrebbe chiamarsi altrimenti: come uno dei tanti partitini a sinistra del Pd.
Gli aderenti sono per lo più nella fascia tra i 35 e i 65 anni, e gli altri sono ragazzi di vent’anni. Che s’iscrivono all’Anpi, perché «ora e sempre Resistenza!» e perché – secondo la teoria di Umberto Eco, giudicata assurda anche da molti suoi amici – esiste il «fascismo eterno», l’ur-fascismo, e dunque questa costante antropologico-politica deve avere eternamente qualcuno che la contrasta.
Chi finanzia l’Anpi? Le entrate delle donazioni del 5 per mille, e secondo i dati relativi al 2013 tramite questo canale sono arrivati nelle casse dell’associazione oltre 218mila euro (non tantissimi ma neanche pochi) e la cifra continua più o meno una ad aggirarsi su questo standard. A questi soldi vanno aggiunti quelli che tutte le associazioni combattentistiche e partigiane ricevono dal ministero della Difesa. La somma per l’Anpi è la più alta ed è cresciuta nel corso del tempo: fino a quota 108mila all’anno. E poi c’è il tesseramento: 15 euro a testa. E si distribuiscono tessere ad honorem: hai un lontano cugino di cui in famiglia si narra che abbia sacramentato contro un nazifascista? Meriti una tessera onoraria. Hai un amico che si è distinto in qualche impresa lassù in montagna? Lui non c’è più, perché magari caduto combattendo, e la tessera spetta a te.
UN PARTITO
Come partito politico, l’Anpi s’è schierata contro il referendum costituzionale voluto, e perduto, da Renzi. Fa da sentinella a ogni sbandamento del Pd dalla retta via dell’anti-fascismo militante sempre e comunque. Gioca di sponda con la Cgil e con i movimenti ieri in lotta contro Berlusconi e ora in guerra contro Salvini (molti tesserati nuovi all’indomani delle elezioni del 4 marzo e a Milano quasi 500 iscritti in più da allora). Si autodefinisce «una casa comune che difende diritti e Costituzione» e soltanto a Roma e provincia nel 2018 sono sorte 10 nuove sezioni Anpi. Che non è più il dopolavoro dei vecchietti di un tempo, dove ci si raccontava storie o leggende delle proprie peripezie con il mitra in mano («Quella che volta che mi si parla davanti un nazista dagli occhi di ghiaccio, e io... bum, bum bum... l’ho steso con il mio mitra»), ma luogo da cui si vede in ogni cosa la traccia del ritorno del Duce. Chissà se l’ha vergata una ragazzino dell’Anpi quella scritta comparsa di recente su un muro del Prenestino: «Monogamy is the new fascism».
A CHE SERVE?
Dunque serve a combattere il fascismo, l’Anpi? No, perché il fascismo non c’è più. Serve a riunire gli antichi partigiani? No, perché non ci sono più. Serve a tenere vivo il ricordo? No, perché all’uopo ci sono gli storici. Più che altro serve come motore, un po’ da giovani e un po’ da canuti ex sessantottini, della dilatazione lessicale del termine fascismo. Che è una tendenza davvero senza età ed è quella che faceva scrivere a George Orwell – non certo un reazionario destrorso – sul settimanale Tribune nel 1946: «La parola fascismo ha perso ogni significato e designa semplicemente qualcosa di indesiderabile».
E così, è fascista il padre che punisce, il professore che boccia, lo studente che bulleggia, il vigile che multa, l’arbitro che non è imparziale. Gente di questo genere – se ne faccia una ragione! – non avrà mai la tessera dell’Anpi. Cioè di questa associazione presieduta da Carla Federica Nespolo, ex parlamentare del Pci, la quale nacque (ma non c’entra con la canzone di Lucio Dalla) il 4 marzo del 43. Nel mitico 25 aprile del 45 aveva poco più di due anni, ma magari già faceva la Resistenza.