Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  aprile 24 Mercoledì calendario

Intervista a Jon Fosse

Le opere di Jon Fosse sono rappresentate nei teatri di tutto il mondo. In attesa (forse) del Nobel, cui è stato candidato più volte, il re di Norvegia gli ha concesso di abitare a Oslo, nella residenza reale di Grotten, per meriti letterari. In sessant’anni, il norvegese Fosse ha scritto romanzi, libri per bambini, poesie, opere di teatro, saggi. Ora viene pubblicato in Italia uno dei suoi maggiori successi in prosa, Mattino e sera (La nave di Teseo, pagg. 152, euro 16; traduzione di Margherita Podestà Heir): la vita di un uomo, Johannes, racchiusa in due momenti. Quello in cui nasce, e quello in cui muore.
Jon Fosse, come le è venuta l’idea di un romanzo costruito solo su questi due momenti?
«Per molti anni ho scritto soprattutto per il teatro. Ma non volevo abbandonare la prosa. Il mio primo libro era un romanzo breve, pubblicato nel 1983, e durante gli anni ’80 ho scritto vari romanzi, prima che la drammaturgia prendesse il sopravvento. Ma che cosa avrei potuto scrivere, di nuovo? Ho deciso di occuparmi delle due esperienze supreme nella vita di un essere umano: nascere e morire».
Come ha fatto?
«Prima ho scritto della nascita. L’idea era di scrivere dal punto di vista di un essere che viene al mondo, ma si è rivelato impossibile; quindi solo alcuni passaggi sono visti, più o meno, con la prospettiva del neonato. Poi, forse un anno dopo, ho scritto il testo sul morire. È stato molto più semplice. È passato ancora del tempo, poi ho riletto i due testi e ho capito che, insieme, avrebbero formato un romanzo breve. Ho solo dovuto fare qualche modifica superficiale».
Tutta la storia sembra muoversi su un piano simbolico. È così?
«Ovviamente è una storia vera, con persone reali e, diciamo, fantasmi reali... Il fatto è che per me, in tutto ciò che scrivo, quello che scrivo in realtà è una cosa, ma quello che scrivo davvero è un’altra. Come se ci fosse un linguaggio dietro il linguaggio reale: ed è questo linguaggio retrostante, questo linguaggio silenzioso, ma che parla in qualche modo, a essere il più importante. Non so se la parola simbolo, o allegoria, colga questa dimensione della mia scrittura. Ma forse non ci sono altri vocaboli da usare, anche se certo non si tratta di allegorie in senso tradizionale».
Che cosa pensa del realismo in letteratura?
«Un certo livello di realismo, o di realtà riconoscibile, è una necessità per la letteratura. Perfino per la letteratura fantastica di Franz Kafka. Allo stesso tempo, in quella che considero vera letteratura, non c’è solo questo realismo. C’è qualcosa d’altro, che forse è una presenza invisibile, intorno a quello che c’è davvero. Per esempio, di nuovo, si pensi alla scrittura di Kafka».
Il suo romanzo è molto spirituale. È religioso?
«Per me l’essere umano è sicuramente un essere spirituale. Sia il linguaggio, sia la letteratura hanno una specie di esistenza spirituale, o invisibile. O, almeno, è quella dimensione a dare loro importanza. Io distinguo nettamente fra me come scrittore e come persona. Però c’è una sorta di dimensione religiosa nella mia scrittura o forse, piuttosto, una dimensione mistica. E io sono una persona religiosa. La fede e i riti cui appartengo sono cambiati negli anni, ma per me le confessioni non sono così importanti».
Lei ripete e ripete le stesse parole, le stesse frasi. Perché questo stile?
«Sono famoso o, forse, famigerato, per le mie ripetizioni. Credo che il motivo sia semplice: quando ho cominciato a scrivere, molto giovane, intorno ai 12 anni, ero immerso nella musica. Nella scrittura cercavo di ritrovarmi nello stesso stato d’animo di quando suonavo. E il modo per arrivarci era ripetere. Per molti versi sono ancora quel ragazzino che cerca di scrivere una musica in parole. O, almeno, quel ragazzino è ancora seduto da qualche parte, dentro di me».
Quali sono le differenze principali fra scrivere un romanzo e un’opera teatrale?
«Sono molto diversi. Per me il teatro è più come una poesia. Cito spesso una frase di García Lorca: il teatro è una poesia che si alza. Per me è fantastico avere l’abilità di passare da uno all’altro: quando mi stufo, cambio. La differenza maggiore è che nel teatro ci vuole grandissima concentrazione, una intensità enorme, mentre nel romanzo serve una intensità diversa, più lenta. Spesso parlo dei miei romanzi come di prosa lenta».
Quali autori l’hanno ispirata di più?
«Forse sono più influenzato dai filosofi: Wittgenstein e Heidegger su tutti. Da ragazzo ho letto il poeta austriaco Georg Trakl, e sono sicuro che influenzi ancora la mia scrittura. Di recente ho tradotto la sua raccolta Sebastian in sogno in norvegese».
Per la prosa e il teatro?
«Da giovane ho letto anche lo scrittore norvegese Tarjei Vesaas, e sono sicuro che mi abbia influenzato. Così come Samuel Beckett. Avevo così paura della sua influenza quando ho scritto la mia prima opera teatrale che, come per rispondere ad Aspettando Godot, l’ho intitolata Qualcuno arriverà».
Ha fatto spesso traduzioni, perfino del Faust. Come si affronta un compito del genere?
«Ho tradotto molto teatro, anche le tragedie greche. Adoro tradurre. Posso concentrarmi sul linguaggio e sulla forma, e non devo immergermi nell’ignoto, come quando scrivo le mie cose. Però non ho tradotto tutto il Faust, soltanto delle parti, scelte da un regista per una messa in scena. Di recente ho tradotto anche romanzi, e ora sono al lavoro sul Processo di Kafka».
Quanto sono importanti il paesaggio e la natura del suo Paese, la Norvegia, per la sua opera?
«Sono cresciuto vicino all’Hardangerfjord. Sono sicuro che il paesaggio di questa regione della Norvegia mi abbia influenzato moltissimo, non solo come persona, ma anche come scrittore. Semplicemente, questa parte della Norvegia, il Vestlandet, è il mio paesaggio. Anche se non vivo lì ho ancora una casetta sul mare, a nord di Bergen, e una barca. Amo stare al mare».
Karl Ove Knausgård l’ha citata spesso come suo «maestro». Però i vostri libri sembrano quasi l’opposto, per quanto riguarda lo stile e l’approccio al realismo e alla vita personale. È così?
«Sì, lo stile di Karl Ove e il mio sono agli opposti. Ho insegnato scrittura creativa per cinque anni, e Karl Ove è stato mio studente per un anno. Ho sempre insistito sul fatto che sia sbagliato usare le proprie esperienze personali direttamente nella scrittura: devono essere trasformate in scrittura esse stesse. Sono sicuro di averlo ripetuto anche quando c’era Karl Ove. Quindi è stato lo studente perfetto di scrittura creativa: ha fatto l’esatto opposto di quello che l’insegnante gli ha detto. O forse no... Comunque sono veramente contento del suo successo come scrittore».
La letteratura norvegese è spesso legata a uno spirito cupo e agli aspetti più oscuri dell’esistenza. Anche lei ha questa tendenza? Per esempio, nel romanzo Johannes vomita ogni mattina appena si sveglia, e considera la solitudine un valore supremo.
«Credo di sì. Non so perché la letteratura e l’arte nordiche abbiano questo lato malinconico, ma di sicuro è così. Però credo valga lo stesso per la letteratura russa».
È considerato l’erede di Ibsen. È stato per lei un modello?
«Sono il drammaturgo norvegese più rappresentato al mondo dai tempi di Ibsen, non c’è dubbio. Ammiro Ibsen moltissimo, ma non amo la sua scrittura. Fra le sue opere, la mia preferita è Peer Gynt».