la Repubblica, 24 aprile 2019
Marchionne e la scalata a General Motors
TORINO Una lettera. Un documento che avrebbe potuto cambiare i destini dell’industria dell’auto. E che non venne mai usato. Per opportunità. Perché non puoi entrare nei salotti di Washington e fare a pezzi la cristalleria. Con quella lettera Sergio Marchionne avrebbe lanciato l’opa ostile sulla General Motors. Ottenendo da banche e investitori linee di credito per circa 60 miliardi di dollari, la somma necessaria all’operazione. Cifra enorme per un obiettivo ambizioso: creare il più grande produttore mondiale di automobili. «Sergio Marchionne sa che l’operazione è molto rischiosa, che in un attacco del genere si potrebbe giocare tutta la carriera», rivela Tommaso Ebhardt nel libro-racconto sui suoi 10 anni di cronista incaricato da Bloomberg di seguire l’allora amministratore delegato di Fiat. Probabilmente il testo definitivo, certamente il più informato sulla parabola del manager di Chieti. Aggiunge Ebhardt: «Marchionne valuta l’operazione. Parla con diverse banche, americane ed europee. Trova alcuni pronti ad appoggiarlo. Ha in tasca una lettera che gli garantisce il finanziamento necessario a lanciare un’opa ostile contro General Motors, mi confiderà anni dopo. Una lettera firmata da una banca del vecchio continente disposta a finanziare economicamente la scalata». Nella primavera del 2015, quando Marchionne studia l’operazione, Mary Barra è appena arrivata al vertice di General Motors. È la prima donna a guidare il gigante di Detroit. Nella ricostruzione di Ebhardt, questo è un elemento che finisce per giocare contro la fusione: «Non ci sono le condizioni neanche per Warren Buffett. L’oracolo di Omaha, uno dei principali azionisti di Gm, è da sempre il punto di riferimento del presidente di Fiat, John Elkann...Buffett fa capire a Elkann che non ha senso buttarsi in un’impesa disperata come quella di scalare Gm. Da Washington arrivano al numero uno degli Agnelli e al manager consigli simili: Mary Barra ha diritto di avere la sua chance senza essere attaccata». Messaggio chiaro: gli uomini dei palazzi di Washington sono contrari alla scalata. Marchionne non porterà mai la lettera delle banche in consiglio di amministrazione. Anzi. Pochi mesi dopo, il 10 gennaio 2016, la sera prima dell’apertura del Salone di Detroit, nel garage della sua casa in Michigan metterà a punto con John Elkann la strategia: «Non parliamo più di fusioni. Ora devo guardarmi in casa e sputare l’anima per far esprimere al gruppo tutto il suo potenziale. Il mio compito è lasciare una cucina in ordine al prossimo chef». La testimonianza di Ebhardt è un’importante conferma di ciò che era trapelato senza dettagli all’epoca: il manager aveva il colpo in canna per conquistare Gm ma venne fermato dall’ostilità di Washington e dai dubbi degli stessi azionisti di Fca. Non è solo una storia passata. Perché il tema delle alleanze è attualissimo e lo stesso Lingotto non esclude affatto che si possa arrivare a un accordo con un altro costruttore. Nel libro testimonianza Ebhardt rivela che già nel 2013 erano iniziati i contatti con i francesi di Peugeot, che oggi sembrano tornati d’attualità. «Quella volta – racconta – l’interlocutore di Fca è Emmanuel Macron. Il futuro presidente della Repubblica è vicesegretario generale dell’Eliseo. L’opzione interessa a Marchionne e a Elkann. Parigi alla fine decide diversamente, salva Peugeot con un investimento diretto, in un aumento di capitale che porta anche i cinesi di Dongfeng tra gli azionisti». Ma nella vicenda delle alleanze, nel diverso atteggiamento di Marchionne, desideroso di chiudere ad ogni costo, e di Elkann, più prudente, c’è il nodo di fondo della vicenda personale del manager: l’ossessione per il tempo. È sempre il tempo che lo spinge ad accelerare, a bruciare le tappe. Non solo perché la vecchia Europa viaggia a velocità più lente di quanto accade nel resto del mondo. Ma anche perché lui, Sergio Marchionne, sa che il tempo a sua disposizione sta consumandosi. Il giovane Elkann non solo ha un altro ruolo ma anche una diversa prospettiva. Marchionne non si immaginava che il tempo per lui fosse così breve. La ricostruzione di Ebhardt, le stesse confessioni del manager al cronista confermano che la morte nella clinica svizzera, il 25 luglio scorso, è stata imprevista. Il manager sapeva, e non disse, di avere una grave malattia ma non pensava certo che quella operazione alla spalla avrebbe avuto per lui esiti letali.La ricostruzione di quegli ultimi giorni per chi ha avuto occasione di conoscere Sergio Marchionne è la parte più toccante del libro. E chiarisce anche attraverso quale selezione si è giunti, in quelle drammatiche ore, alla scelta di Mike Manley come numero uno. Già a gennaio Marchionne aveva confidato che «i candidati sono quei tre di cui parlate sui giornali». I tre erano Manley, il capo della finanza Richard Palmer e Alfredo Altavilla il capo dell’Europa. Ma a luglio, quando Elkann è ormai solo a dover prendere la decisione Ebhardt spiega che «sono rimasti due nomi da portare in consiglio: Manley e Palmer. Il direttore finanziario non se la sente di prendere il posto del Dottore, Manley sì». Più recentemente, in occasione dell’assemblea di Amsterdam, Palmer è entrato nel consiglio di amministrazione aumentando il suo peso al vertice. Che cosa resta della disperata corsa contro il tempo di Sergio Marchionne? Oltre ai conti in ordine di Fca, rimane una visione, un’idea del capitalismo e dell’Occidente. La scommessa che si possano superare i muri culturali che oggi invece la politica costruisce. «Quando morirò – gli confidò una volta uno dei negoziatori di Obama voglio che sulla mia tomba ci sia solo una scritta: “Quest’uomo ha fatto la differenza"». Marchionne quella frase l’ha fatta sua.