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 2019  aprile 20 Sabato calendario

Un kilimangiaro di fake news. Le producono anche i media con il bollino di qualità

Non si danno pace e c’è da capirli. Ci avevano raccontato che Hillary aveva vinto tutti i dibattiti televisivi. Ci avevano assicurato che la partita era chiusa, la Clinton sarebbe sicuramente entrata alla Casa Bianca. Poi, ci hanno spiegato che ha perso per colpa delle e-mail hackerate dai russi: elezioni rubate. E ancora, che Trump era un puppet di Putin e che lui o il suo comitato avevano cospirato, o almeno collaborato con i russi per interferire nelle elezioni. Che il «Cialtrone in Chief» avrebbe da ultimo subito un impeachment o si sarebbe dimesso. Che Mueller stava «stringendo il cerchio attorno a Trump» ed era a un passo dalla «pistola fumante», questione di giorni. Persino, nelle ultime ore, che l’Attorney General William Barr nella sua lettera al Congresso sulle conclusioni dell’inchiesta aveva barato, omettendo chissà quali colpi di scena e particolari incriminanti il presidente.Niente di tutto questo si è verificato, le hanno toppate tutte e nel giorno della pubblicazione delle 448 pagine del rapporto Mueller sono lì ad arrampicarsi sugli specchi. A Roma si dice: «Nun ce vonno sta’», oppure «se stanno attacca’ ar fumo daa pipa». Cerchiamo di fare un minimo di ordine e di chiarezza, rispetto agli sforzi sovrumani che i media e i commentatori liberal, al di là e al di qua dell’Atlantico, stanno, in queste ore, profondendo per convincervi che il disordinato elenco di dettagli, circostanze, indizi, «evidence», contenuti nel rapporto possa in qualche modo sovvertire o attenuare le stringenti conclusioni dell’inchiesta: no collusion e no obstruction.
Dall’indagine del procuratore speciale Mueller non è uscito niente di particolarmente nuovo rispetto a quanto l’Fbi già sapeva, avendo già sorvegliato e spiato la Campagna Trump durante la campagna elettorale (vedremo se con giustificato motivo), e aveva in gran parte già spifferato ai giornali compiacenti con modalità che ricordano certe nostre gazzette delle procure. L’inchiesta di Mueller serviva a trascinare la narrazione della collusione il più possibile, con l’obiettivo non di trovare le prove necessarie a incriminare il presidente, ma di fornire materiale sufficiente per l’avvio di una procedura di impeachment, nella speranza che i Democratici riuscissero a conquistare il controllo anche del Senato alle elezioni di midterm.
Essendo questa una decisione in ultima analisi politica, non c’è mai stato in realtà il bisogno di trovare un crimine, ma quello di istruire o meglio montare il caso. I Democratici, che controllano la Camera, possono muoversi in questa direzione anche solo sulla base del rapporto Mueller, se intendono farlo. Non hanno bisogno di una incriminazione formale. Per questo, ai fini dell’impeachment, non è mai stato importante il reato di cospirazione, ma si è sempre parlato di «collusione». Staremo a vedere se decideranno di giocarsi questa carta in vista delle presidenziali del 2020, nonostante la «no collusion».
Proprio la questione della collusione è chiusa. Non c’è prova di collusione e di alcuna assistenza da parte di americani alle interferenze russe nelle elezioni presidenziali del 2016. Leggerete o sentirete che però la Campagna Trump ha avuto numerosi «contatti» con i russi e con Wikileaks, ma che purtroppo non si è potuto procedere perché mancano le prove di un reato penale. In realtà, non c’è prova nemmeno di un coordinamento. Anzi, molti di questi contatti provano o un rifiuto di coordinamento, o una totale mancanza di informazioni degli uomini del comitato elettorale di Trump sulle famose e-mail hackerate ai Democratici. Certo, speravano di avvantaggiarsene, ma cercavano di capire cosa stava per accadere, esattamente come i cronisti. Pensate che nemmeno il «contatto» Papadopoulos-Mifsud, che riguardava proprio le e-mail, è stato ritenuto prova di «collusione».
Addirittura, qualcuno arriva a definire fuorviante e manipolatorio da parte di Barr parlare di «no collusion», perché Mueller scrive chiaramente che l’inchiesta si è mossa nel quadro del reato di «cospirazione» e non del generico concetto di «collusione». Ma infatti, il concetto di «collusione», legalmente, non ha mai significato nulla. Ma non ha certo iniziato Barr a usarlo! Sulla collusione hanno insistito a tamburo battente i media liberal e i Democratici proprio per preparare il terreno a un impeachment in assenza di crimini. Ma pare non ci sia ciccia nemmeno per quello… Ma è sull’ipotesi di ostruzione alla giustizia da parte del presidente Trump che le conclusioni del rapporto Mueller sono effettivamente più ambigue: «Se dopo la nostra attenta analisi dei fatti fossimo convinti che il presidente non abbia ostacolato la giustizia, lo diremmo. Sulla base dei fatti e delle leggi, non possiamo arrivare a questa conclusione. Di conseguenza, per quanto questo rapporto non concluda che il presidente ha commesso un reato, non lo esonera nemmeno». Ciò che dovrebbe subito saltare agli occhi di questa conclusione è che significa rovesciare bellamente l’onere della prova, cari liberali. Mueller ci sta dicendo che sull’ostruzione alla giustizia non è riuscito a provare l’innocenza di Trump. Ma un’indagine si fa per provare o trovare indizi di colpevolezza, non per convincersi che gli indagati siano innocenti oltre ogni ragionevole dubbio, ribaltando così il noto principio cardine del giusto processo. È diritto di ogni cittadino che sia il governo a provare che un crimine è stato commesso, non di dover egli dimostrare la propria innocenza. Se ritiene ci siano prove sufficienti per incriminare qualcuno, per contestare un crimine, il pm procede. Altrimenti, resta in silenzio. Non può decidere di non chiedere il rinvio a giudizio, ma aggiungere di non escludere che il reato sia stato commesso, o peggio di non essere pienamente convinto che le persone indagate siano innocenti.
Certo, la condotta di Trump può non apparire encomiabile e lineare, per usare un eufemismo, ed essere ritenuta disdicevole. Mueller riporta i tentativi di Trump di influenzare e anche fermare la sua inchiesta. Tentando, per esempio, di indurre il licenziamento del procuratore speciale. Evocando provvedimenti di grazia per i suoi collaboratori coinvolti. Ma c’è un fatto che taglia la testa al toro. Il presidente avrebbe potuto ordinare di chiudere l’inchiesta in qualsiasi momento, ma, in definitiva, non l’ha fatto. Avrebbe potuto avvalersi dei suoi poteri per negare al procuratore Mueller l’accesso a testimoni chiave, come il consigliere McGahn. Non l’ha fatto e anzi molti si sono proposti spontaneamente, senza necessità di citazioni. Oltre un milione di documenti sono stati forniti, incluse le note degli incontri tra il presidente e i suoi consiglieri. E anche se avesse chiuso l’indagine Mueller (è una tesi autorevolmente sostenuta da avvocati e costituzionalisti, come il liberal Alan Dershowitz) il presidente non avrebbe commesso ostruzione, ma comunque esercitato un suo legittimo potere, come ha fatto licenziando l’ex direttore Fbi, Comey. Ben diverso dal compiere atti illeciti, corruttivi. Certo, una decisione del genere avrebbe potuto essere ritenuta inappropriata, sospetta dal Congresso e quindi innescare una procedura di impeachment. Ma soprattutto: non essendoci collusione, non c’era nulla da coprire. Mancando il reato di cospirazione o la condotta della collusione o di coordinamento con i russi, un’ostruzione alla giustizia non si sarebbe potuta provare oltre ogni ragionevole dubbio.
Leggerete e sentirete molti ironizzare sul fatto che la condotta non cristallina di Trump sia stata giustificata con la sua «frustrazione» per l’inchiesta, alludendo al timore che venisse fuori qualcosa di illecito o inconfessabile. La frase, pronunciata dal presidente e riportata nel rapporto, subito dopo aver appreso della nomina di Mueller, «Oh mio Dio. È terribile. Questa è la fine della mia presidenza. Sono fottuto», viene presentata come un’implicita ammissione di colpevolezza. Ma la «frustrazione» del presidente non era motivata dal timore di essere scoperto, bensì dal rischio concreto che, come tutti dicevano e scrivevano, l’indagine avrebbe comunque potuto danneggiare la sua presidenza, compromettere la sua capacità di governare e la stessa politica del Paese. E in una certa misura è proprio così che è andata. In ogni caso, Trump avrebbe potuto dar seguito agli sfoghi con i suoi collaboratori, alla sua rabbia, ma non l’ha fatto.
Ma c’è un aspetto ancora più sottile che viene sottolineato sul punto dell’ostruzione alla giustizia. Si dice: Mueller non poteva incriminare il presidente e nel rapporto ricorda quindi che solo il Congresso può farlo. Certo, ma avrebbe potuto raccomandare di incriminarlo – anzi questa era la decisione che molti si aspettavano da lui. Avendo però deciso di non farlo, si sarebbe dovuto limitare a dire che non stava raccomandando l’incriminazione. Punto. Tutto il resto va oltre e contro la Costituzione. Invece, se ne è lavato le mani, adombrando il sospetto, in modo da fornire argomenti a chi ritiene che ci siano comunque elementi meritevoli di una richiesta di impeachment. La sensazione è che sarebbe andato fino in fondo, raccomandando l’incriminazione, se anche il Senato fosse stato controllato dai Democratici. Ma le sue intenzioni contano davvero poco. Poteva raccomandarla e non lo ha fatto, ha lasciato la decisione finale all’Attorney General Barr, non potendo certo aspettarsi che lo facesse al posto suo.
Leggerete e sentirete anche che nel corso dell’indagine Mueller si è imbattuto in «prove di potenziali crimini» (14 in tutto) che ha segnalato ai competenti uffici del Dipartimento di Giustizia. Ma se non ha incriminato nessuno per questi reati, e dodici di questi restano segreti, è perché esulavano dalla sua giurisdizione, che era la «collusione» o «cospirazione» della Campagna Trump con la Russia, non una pesca a strascico. Ci sarà tempo per leggere in modo più approfondito il rapporto Mueller, ma ad un primo sguardo alcune cose appaiono bizzarre.
Nel capitolo sulla collusione, l’incontro tra il consigliere della Campagna Trump, George Papadopoulos e il diplomatico australiano Downer a Londra, da cui è partita la «full investigation» dell’Fbi in piena campagna elettorale, è quasi una nota a piè di pagina. E il dossier Steele, elemento decisivo portato dall’Fbi per ottenere l’autorizzazione Fisa a sorvegliare la Campagna Trump? Citato una dozzina di volte, senza approfondirne origini e legami con la Campagna Clinton e personaggi di nazionalità russa. E Carter Page, il consigliere additato come traditore e agente russo? A quanto ci risulta, a lui è dedicato un solo paragrafo nelle oltre 400 pagine. Un modo, forse, per nascondere sotto il tappeto le tracce di una condotta non proprio fair da parte dell’Fbi.