La Stampa, 23 aprile 2019
L’intelligenza si eredita?
Se scoprissimo che l’intelligenza non si impara ma si eredita, sarebbe il caos: basta ricordare come i totalitarismi strumentalizzarono e manipolarono il determinismo genetico. E come lo si faccia ancora oggi, a partire da premi Nobel del calibro di James Watson, scopritore del Dna, finito nella bufera per aver bollato le donne e le minoranze come intellettualmente inferiori.
È anche per via di questo timore che la scienza non ha mai esplicitamente indagato l’intelligenza come si fa con le altre espressioni della fisiologia e della biochimica umane, per esempio le malattie, in cui geni e marcatori biologici permettono di delineare strategie di prevenzione e di cure mirate. Ricorderete l’«outing» di Angelina Jolie, quando si sottopose a mastectomia dopo avere appreso da alcuni test genetici di avere geni che la predisponevano al cancro. Ma che mondo sarebbe se potessimo farci davvero il «ritocchino» all’intelletto, asportando i geni della pigrizia oppure quelli della stupidità?
Naturalmente non è così semplice, ma l’intelligenza è, in parte, determinata geneticamente e il ricercatore non dovrebbe mai tirarsi indietro di fronte all’opportunità di capire. È l’opinione di Pietro Pietrini, neuroscienziato e psichiatra, direttore della Scuola Imt Alti Studi di Lucca, ospite al Festival della Scienza Medica di Bologna, in programma dal 9 al 12 maggio. «Cosa sappiamo sulle basi genetiche e neurobiologiche dell’intelligenza umana e dei suoi usi» è il titolo dell’intervento, previsto sabato 11. «Noi sappiamo che i geni coinvolti sono migliaia e contano per il 50%, mentre l’ambiente fa il resto», anticipa Pietrini. Potrebbe sembrare un eccesso di meccanicismo, ma - come insegna la critica a Cartesio - non possiamo comunque prescindere dalla materia, quando parliamo dell’uomo: mente e corpo coesistono.
Il «trucco» metodologico
Se per individuare la predisposizione a una malattia o i geni responsabili di un tratto fisico ci basiamo su elementi biologici, come le proteine, cosa dovremmo «analizzare» per cercare l’intelligenza? Un test che ne stabilisca le basi genetiche (il dibattito è vivissimo, a partire da contribuiti su «Nature Review» come «The new genetics of intelligence» dei neuroscienziati Robert Plomin e Sophie von Stumm) deve saper separare il contributo innato da quello ambientale. Per farlo c’è un «trucco»: si impostano tecniche simili a quelle per valutare altre attitudini comportamentali come, per esempio, la predisposizione all’alcolismo. In questo caso si confrontano i figli biologici di alcolisti, che hanno vissuto con i propri genitori, con altri figli biologici di alcolisti che però, alla nascita, sono stati adottati da genitori senza problemi di alcol. Così, se si svilupperà la dipendenza negli individui del secondo gruppo, è possibile sostenere che questa non sia legata a modelli culturali «favorenti», ma ai geni.
Figli e genitori alcolisti
«In effetti figli biologici di alcolisti allevati da non alcolisti sviluppano la malattia con una frequenza inferiore a quella dei figli di genitori alcolisti allevati dagli stessi, ma superiore rispetto ai figli di genitori sani». Dunque, i comportamenti sono, in parte, «innati». C’è anche una letteratura che sostiene, addirittura, che sia la madre a contribuire in modo predominante all’intelligenza della prole. Lo si ipotizza perché esistono geni detti «condizionati», che si comportano in modo diverso, se si ereditano dalla madre o dal padre. I geni condizionati che si ereditano dalla madre sembrano essere responsabili del funzionamento della corteccia cerebrale, con cui esercitiamo le funzioni cognitive superiori come il pensiero astratto, il linguaggio, la pianificazione. In questa sede, invece, non si attiverebbero i geni ereditati per via paterna. Quindi il «tempio» dell’intelligenza sarebbe costruito da geni materni. «Un ragionamento comprensibile, ma difficile da dimostrare in modo incontrovertibile - secondo Pietrini - perché il legame del bambino con la madre è talmente vincolante che le attitudini cognitive potrebbero risultare fortemente influenzate dal rapporto con lei piuttosto che dai geni».
Definizioni variabili
Ma al di là del fatto se la corteccia cerebrale ce la «faccia» mamma o papà, l’obiezione più importante resta: com’è possibile affermare l’origine dell’intelligenza se non ne esiste una definizione univoca? Che cosa cercano gli scienziati? Secondo Pietrini, è giusto includere la capacità di risolvere problemi ma anche quella, meno tecnica eppure molto utile, di essere felici, che equivale - aggiunge - alla «capacità di proiettarci nel futuro». «Ci immaginiamo sempre chi saremo da grandi o che cosa faremo il mese prossimo e questo è naturale: sarebbe infatti difficile studiare, lavorare e pagare le tasse, se non ne vedessimo lo scopo. E infatti la mancanza di immaginare il futuro è il sintomo tipico di uno stato depressivo». Ecco perché la capacità di essere felici e l’intelligenza, in parte, coincidono.
Valutarla geneticamente, poi, significa anche sapere prescindere dai condizionamenti geografici e dall’istruzione, perché non siamo intelligenti se siamo nati a New York piuttosto che nelle steppe siberiane e intelligenza non equivale a erudizione: un ragazzo di 20 anni che abbia frequentato la scuola superiore ha nozioni incredibilmente più evolute di qualsiasi essere vivente vissuto fino a un paio di secoli prima. Se non fosse così, dovremmo concludere, per esempio, che Leonardo da Vinci fosse stupido. «Leonardo è considerato un genio, perché seppe vedere oltre gli schemi della sua epoca. Uno dei limiti dell’intelletto è proprio quello di ragionare in base alle convenzioni».
«Intelligenza», quindi, è anche essere in grado di «arrivare» alle idee prima degli altri. Ma è estremamente difficile, perché il contesto ci acceca. Basta pensare come è evoluta nel tempo l’idea stessa di cervello: «Ai tempi di Galeno, quando la maggiore tecnologia era rappresentata dall’acquedotto, le funzioni mentali erano attribuite ai liquidi che fluivano da una zona all’altra, mentre dai calcolatori in poi il cervello è diventato un “super-computer” e oggi si paragona il suo funzionamento alla rete di Internet». Prudenza, allora, a definirvi dotati di «intelligenza»: le sue forme sono davvero numerose.