il Giornale, 23 aprile 2019
Lunga intervista ad Andrea Vitali
Gira il mondo (della fantasia) stando rigorosamente nella sua Bellano, sul lago di Como. Gira l’universo dell’invenzione letteraria dagli anni Novanta, a conti fatti una produzione di una settantina di titoli. Eppure, giura, non gli piace viaggiare. Andrea Vitali, 63 anni, dalla sua «Belàan» – detto in dialetto come piacerebbe a lui – ogni tanto si sposta.
Eccolo per il rendez vous a Milano per novità editoriali: «A maggio uscirò con un altro libro», annuncia. Pronti via, tra i lettori anche il ministro degli Interni Matteo Salvini, che con le sue pagine si rilassa. Storie della provincia italiana, le sue, eppure quanti premi...
Vitali lei scrive vicende di paese ma i suoi romanzi vengono letti dall’Ungheria al Giappone. Qual è il segreto?
«È in corso una traduzione pure in Corea. Ho fatto una ricerca e ho scoperto che Giovannino Guareschi è uno degli autori più ristampati e letti in quei Paesi».
Per quanto la riguarda come se lo spiega?
«C’è di mezzo la curiosità del lettore, soprattutto di chi gira poco e conosce il mondo coi libri. A me la letteratura giapponese piace un sacco, anche se sulla cartina non so dove sia Tokio».
Fughe immaginarie a parte, lei torna sempre alla base?
«Sì, la mia Bellano (in provincia di Lecco ndr) è una calamita, viverci è una delle mie fortune. Non ho mai amato viaggiare. Se c’è un motivo forte per andare in Egitto ci vado, per le piramidi no».
Insomma meglio stare in paese.
«In questa culla ci sono sempre stato bene. E ormai non ci esco più».
Anche il suo ultimo libro è ambientato a casa sua.
«Si intitola Certe fortune, pubblicato da Garzanti: è la seconda puntata del viaggio di integrazione del maresciallo Maccadò, arrivato dalla Calabria. La storia è ambientata nel 1928 all’interno della comunità bellanese».
Cosa succede al protagonista?
«Mi piaceva immaginare attraverso una serie di fatti questo suo percorso di conoscenza del paesaggio anche umano del luogo proprio attraverso il lavoro».
Se c’è una seconda puntata magari ce ne sarà una terza.
«La prossima sarà quella conclusiva. Poi vado avanti, ho già in testa qualcosina, sto cercando di individuare la via. Comunque resto a Bellano, rigorosamente sul lago di Como».
I personaggi sono sempre ispirati a uomini veri?
«Ci sono personaggi che appartengono alla periferia umana, timidi, poveri o introversi. Comunque vengono giudicati come non interessanti, invece...».
Ne ha incontrati?
«Facendo il medico ne ho conosciuti tanti. Persone che, secondo i luoghi comuni, sembravano di nessun conto. Poi vai a vedere e ti accorgi che ciascuno ha una sua umanità, unicità, grandezza e fantasia».
Oltre alle persone, lei è legato anche ai luoghi fisici della sua terra.
«Una delle cose più belle che si possono vedere sul lago di Como sono certe albe e certi tramonti. Spesso e volentieri in inverno mi alzo di notte e guardo il cielo. Resto incantato dalla magnificenza dell’ambiente in cui vivo».
Quando è iniziata l’abitudine delle alzatacce nel cuore della notte?
«Una delle primissime impressioni è stato un tramonto di settembre che mia madre mi ha fatto vedere, avevo 13 anni. Un’esperienza indimenticabile che mi aprì la porta sul mondo».
E...
«Da quel momento ho cominciato a guardare non solo a vedere. E ad ascoltare, per esempio il rumore dell’acqua, del lago. Mi pare anche di risentire il profumo del fieno secco, mi fa ancora venire i brividi».
Come la ricorda la sua infanzia?
«Mia madre, Edvige, è morta nel giro di pochi mesi in giovane età. Io avevo 17 anni, ero il più vecchio di sei fratelli».
E come ve la siete cavata?
«Mio padre, Antonio, lavorava come impiegato comunale. Sulla gestione della famiglia lasciava fare. Quindi si è trovato in un grosso casino. Per fortuna sono intervenute tre zie».
Fra voi due com’è andata?
«Avevo difficoltà a parlare con lui. Un uomo all’antica poco avvezzo alla comunicazione; per noi figli sarebbe stato importante avere una figura di riferimento. A volte per dirgli le cose gli lasciavo dei biglietti. Comunque, nel bene e nel male, è stata una figura importante per me».
E di sua madre cosa le è rimasto?
«Mia mamma era una donna aperta, purtroppo ho iniziato a conoscerla nelle fasi finali della sua vita. Da lei ho preso la passione per la musica».
Dopo la sua morte, come sono stati i vostri rapporti familiari?
«Da un certo punto in avanti buoni, come quando è nato il mio primo romanzo Il procuratore. I miei fratelli e io eravamo sul terrazzo di casa e mio papà magicamente, stupendo tutti, si mise a raccontare...».
Raccontare che cosa?
«Una storia, e il romanzo è nato sulla base di una sua chiacchiera. Ci ha parlato della sua gioventù, e anche da lì ho attinto per la narrazione. Da lui, che aveva una discreta biblioteca domiciliare, ho preso la passione per la lettura».
Altre passioni?
«In gioventù ero molto attratto dal giornalismo, sportivo. Nel calcio mi piaceva Gigi Riva. Al liceo ho fatto anche qualche articolo su un giornale locale. Mi sembrava il modo ideale per dare sfogo al piacere di scrivere».
Com’è che invece si è iscritto a medicina?
«La scelta è stata una sorta di imitazione di quello che facevano i miei compagni di classe. E poi mio padre era d’accordo».
Pensava a una carriera in corsia?
«Finiti gli studi, ho fatto cinque anni di guardia medica. Poi sono entrato nella medicina di base. Avrei voluto fare psichiatria, ma c’è stato di mezzo il militare e allora...».
Cosa successe?
«Ero addetto all’infermeria. Ripenso alla mia mancata promozione a caporale. Un giorno il comandante mi beccò a leggere le Fiabe irlandesi di Yeats, forse mi ha ritenuto un po’ immaturo. Insomma bocciato perché leggevo favole».
Ha ancora addosso il camice bianco?
«Mi sono dimesso dal sistema sanitario, ma resto a disposizione della comunità, in maniera gratuita».
Praticamente ha sempre avuto una doppia vita...
«Già, dottore e scrittore. In realtà era già successo negli anni dell’università. Avevo scritto una quindicina di racconti poi pubblicati nel 1987 da Raffaele Crovi. Erano su un suo libro-rivista, Il Belpaese».
Ma vivere così, in un piccolo centro di provincia, non fa discutere?
«Battute a parte (ride divertito, ndr), parlando di valori la provincia insegna ancora la misura e a rivalutare un certo modo di sentire la vita. Che non è fatta solo di soldi, successo e carriera».
E di cosa, allora?
«Il volere bene a chi ti ha fatto del bene, magari anche in maniera inconscia. Insomma la provincia è come una scuola di affetto».
Nella sua personale scuola, chi è stato il maestro?
«Uno è un pittore appena scomparso, Giancarlo Vitali. Un grande amico, da lui ho imparato tanto in termini di serietà del lavoro; mai sedersi sugli allori e non montarsi la testa. Una delle grandi lezioni: quasi tutto è vanità».
Dalla sua finestra come vede il mondo?
«Il mondo è la Svizzera, che sta dietro alla montagna. Per me, che non ho girato molto, è un’utopia. Quando potevamo vedere la loro tv mi pareva di potermi collegare con l’universo».
Come considera la famiglia?
«È importante. Mi sono sposato tardi con Manuela. Ho un figlio, Domenico, di 22 anni. Mia moglie è mia alleata. Leggo a voce alta le cose che sto scrivendo e lei con le espressioni mi fa capire cosa ne pensa. Critica con la mimica».
Come pensa sarà il futuro per i ragazzi?
«Le nuovissime generazioni cresceranno con le tecnologie come dato acquisito, le useranno bene. Torneranno alla chiacchiera. Ai bambini poi, bisogna fare annusare il profumo dei libri, è un profumo che il tablet non ti può dare».
E l’Italia in prospettiva?
«Mi sento profondamente italiano e mi girano i coglioni quando qualcuno ne parla male. È un gran bel Paese, con dei gran bei cervelli, ecco magari non bisognerebbe farli scappare».
Lei cosa fa?
«Prendo posizione, è un dovere di ogni essere umano. Io lo faccio appena posso nella vita reale, faccio un po’ di volontariato».
Come sarebbe un «governo degli scrittori»?
«Ho ancora un’idea seria della politica. Certe figure del passato sono state svillaneggiate assai, penso ad Andreotti; io le rivaluterei proprio in funzione della preparazione e le capacità che hanno avuto. Questa non è una cosa che si può inventare dall’oggi al domani».
Ci sarebbe il compito di gestire gli italiani...
«Gli italiani sono molti popoli diversi l’uno dall’altro. La mentalità di un lombardo è diversa da quella di un siciliano. Però bisogna tenere conto che se un lombardo può lavorare alle 2 del pomeriggio di un giorno di luglio, un siciliano non lo può fare perché a quell’ora in Sicilia crepi, vacci tu a lavorare con quel caldo...».
Quindi?
«Io capisco poco di politica, ma se ciascuno potesse gestire le cose secondo le proprie abitudini e necessità, sarebbe meglio. Insomma, gli stati uniti d’Italia».
Dall’impegno passiamo al disimpegno...
«Nel tempo libero leggo, mi piace alternare autori contemporanei alle riletture di classici come Omero, Euripide, Eschilo e Sofocle. È sbagliato non farli studiare ai giovani, dentro a quello che hanno raccontato ci sono cose moderne».
Ai fornelli come se la cava?
«In assenza di mia moglie, che cucina benissimo, mi è capitato di comprare il minestrone in scatola. Ricordo che ce lo dividevamo io e il mia bestiola in casa, Misha. Come diceva una poesia di Esenin, una briciola all’uomo e una al cane».
Lei è un appassionato di calcio.
«Vado alla stadio a vedere giocare il Como. Su questa squadra ho fatto un librettino quando venne promossa in serie B. Si intitola Le mille bolle blu».
C’è un Vitali segreto?
«Non ho mai dato una sberla a nessuno ma mi piace il cinema violento, è possibile che io mi voglia vendicare attraverso i film. Continuo a rivedere Romanzo criminale e Gomorra».
Bilancio di una vita...
«Mi ritengo abbastanza appagato. Rifarei medicina, per il rigore nello studio. Una cosa invece non rifarei: mandare a quel paese mio padre».
La fede?
«Ho sempre la necessità di convincermi che ci sia un senso superiore o più compiuto. Ho una sorta di languore interiore e penso che la vastità dei cieli non può essere che sia capitata per caso».
Ma guardando al futuro, qualche idea ce l’ha?
«Qualche ideuzza ce l’ho. Il mio sogno è scrivere un romanzo d’amore, ma non vorrei cadere nel bacetto di San Valentino. Tra le cose di famiglia, vorrei vedere mio figlio avviato in un qualcosa che lo faccia felice, lui ha anche ambizioni musicali».
Chi sono i suoi fan?
«In tv Salvini mi ha citato dicendo che quando vuole rilassarsi legge i miei libri. Tra i lettori ci sono Pupi Avati, che mi manda sempre delle lettere, e Sveva Casati Modignani, che mi cita nei suoi romanzi».
Cos’ha capito Vitali della vita?
«Ho capito che quanto tu la riesci a vivere in pace con te stesso e col mondo tanto più stai bene. Bisogna liberarsi dalle ambizioni inutili. Attenzione ai falsi miti, alle aspirazioni solo materiali».