il Giornale, 23 aprile 2019
I nostri primi 40 anni di Asl
La rivoluzione è iniziata 40 anni fa. Appena prima di Natale il parlamento aveva approvato la legge 883, una riforma già allora definita storica; nei primi mesi del 1979 la burocrazia si mise in moto: le 300 mutue, tra piccole e grandi, scomparvero; al loro posto spuntarono le Usl, unità sanitarie locali, poi diventate Asl (aziende), e che in Lombardia si sono da qualche tempo trasformate in Ast, Agenzie per la tutela della salute. L’Italia diceva addio a una sanità basata su assicurazioni di categoria, in cui i contributi erano pagati da lavoratori e datori di lavoro e in cui bisognava orientarsi tra sigle ai più ormai sconosciute: Inam, Enpas, Enpdep, Inadel. Nasceva il sistema sanitario nazionale a carattere universale, pagato da tutti, con i soldi delle tasse.
Com’è normale per una rivoluzione fatta di leggi e provvedimenti amministrativi, l’anniversario è stato ricordato solo da un pugno di ricerche e convegni, quasi tutti strettamente riservati agli addetti ai lavori. E in molti i casi il verdetto degli esperti è stato identico: il carrozzone è un po’ sgangherato e pieno di problemi, dalla corruzione alle ingerenze della politica, ma tutto sommato va.
Il problema è che nessuno se ne accorge e nessuno si preoccupa che il meccanismo continui a stare in piedi. «Nell’agenda politica, nell’opinione pubblica e persino tra gli addetti ai lavori manca una consapevolezza collettiva sui positivi risultati e sulle criticità del sistema», scrivevano nell’autunno scorso i docenti del Cergas-Bocconi nelle conclusioni di una giornata di studio.
Che si parli di «positivi risultati» può suscitare sorpresa. Specie se si hanno in mente gli allarmati titoli dei giornali sui periodici casi di malasanità. Eppure, con tutto il brutto che possono dirne gli italiani, la sanità della Penisola è spesso ai vertici delle classifiche internazionali. Nel settembre dell’anno scorso uno studio dell’Agenzia Bloomberg metteva in relazione la spesa pro-capite sostenuta e i risultati misurati con l’aspettativa di vita. Il dato era tradotto in un indice di efficienza e l’Italia risultava al quarto posto nel mondo dopo Hong Kong, Singapore e la Spagna. A ben vedere, però, una misurazione di questo tipo è grezza e persino fuorviante. «A determinare l’aspettativa di vita sono un insieme di fattori ambientali, culturali e sociali che poco hanno a che fare con la funzionalità del sistema sanitario in senso stretto», spiega Giovanni Fattore, docente di management della sanità alla Bocconi. L’argomento è facilmente comprensibile: chi mangia secondo i dettami della dieta mediterranea, conducendo una vita socialmente piena anche in età avanzata, come accade a molti italiani, campa di più di chi vive da solo, non parla con nessuno e mangia schifezze. E questo senza che dottori e ospedali c’entrino molto.
Ma anche se si guarda a parametri più strettamente medici, l’Italia fa di solito una discreta figura. Unione europea e Ocse pubblicano ogni anno uno studio sui sistemi sanitari europei.
LA CLASSIFICA
Tra le tabelle ci sono quelle relative ai casi di morte evitabili attraverso un migliore e più tempestivo trattamento medico (vedi anche il grafico in alto). L’Italia è quart’ultima in classifica, nel senso che le morti premature sono appena superiori a quelle di Francia, Spagna e Olanda. Peggio di noi fanno tutti gli altri, compresi gli ammirati Paesi Scandinavi. Se poi si guarda alle morti evitabili con una migliore prevenzione l’Italia è addirittura ultima (facciamo meglio di tutti gli altri). Altre statistiche dell’Ocse riguardano aspetti ancora più particolari. La fondazione Gimbe (si occupa di ricerca in campo sanitario) ne ha raccolti alcuni: l’Italia ha il minor tasso di errori medici per ritenzione di materiale estraneo durante gli interventi chirurgici, la più bassa percentuale di ricoveri per diabete; la seconda più bassa mortalità per infarto del miocardio a 30 giorni dal ricovero, la seconda più bassa percentuale di traumi ostetrici.
Si potrebbe andare avanti e anche se non tutti i dati sono da primi della classe (per carcinoma della mammella e del colon-retto siamo per esempio al ventiquattresimo posto), la prestazione non è da buttare. Anche perché i risultati vanno incrociati con la quantità di risorse a disposizione, che sono piuttosto scarse. Tra i Paesi più avanzati l’Italia, con il 6,8%, ha la spesa sanitaria pubblica più bassa in rapporto al Pil (vedi il grafico sopra), e negli ultimi anni i cordoni della Borsa si sono stretti più che in altri Paesi. Nel passato, anche recente, non è stato così: dal 2000 al 2007 le spese sono cresciute fino a passare dal 5,5 al 6,4% del prodotto interno, tra il 2009 e il 2010 si è toccato il massimo (7,3%), poi con la crisi è arrivata la frenata. Anche perché in una decina di Regioni il rosso è finito fuori controllo con relativo piano di rientro dal debito. «Lo Stato controlla il rubinetto dei finanziamenti», spiega Vittorio Mapelli, docente all’Università cattolica. «In questi anni ha stabilito di tenere a stecchetto le Regioni, a cui la sanità è affidata. Se il fabbisogno era 100, ha dato loro 95, dando per scontato che un po’ di deficit avrebbero finito per farlo comunque».
TURISMO SANITARIO
A finanziare la spesa regionale sono soprattutto l’Irap e l’addizionale locale dell’Irpef. Una parte dell’Iva riscossa a livello nazionale va in un «fondo perequativo» che ha come obiettivo quello di uniformare la situazione nelle varie parti del paese. Il fabbisogno di ogni Regione viene calcolato sulla base del numero degli abitanti, corretto da un parametro legato all’età media della popolazione, visto che chi è più anziano si ammala di più. «Da qualche anno sono stati introdotti i cosiddetti costi standard, quelli sostenuti dalle regioni più virtuose a cui gli altri dovrebbero adeguarsi, ma per la distribuzione dei finanziamenti contano poco o nulla», spiega Mapelli. «Naturalmente, una volta arrivati i finanziamenti, c’è differenza se vanno pagare gli stipendi di chi sta in un ufficio o si traducono in prestazioni ai pazienti».
È proprio questo uno dei punti deboli del sistema: ci sono parti del Paese in cui siamo a livello di eccellenza e altre in cui le prestazioni non tengono il passo. Il termometro più evidente di questa situazione sono i dati sul turismo sanitario: migliaia di persone si trasferiscono (in generale dal Sud al Nord) perché cercano di farsi curare al meglio. «Intendiamoci, una parte di questo pendolarismo è del tutto normale: si va a cercare il centro di eccellenza per questa o quella patologia. I guai nascono quando viaggiare verso Nord diventa la normalità», spiega Fattore.
Secondo il docente della Bocconi, il vero problema è che il sotto-finanziamento del sistema mostri prima o poi i suoi effetti e che la macchina finisca per fermarsi. A parità di struttura anagrafica, dice il Cergas (Centro ricerche sulla sanità) dell’università milanese, la spesa sanitaria pubblica è pari a 1.867 euro contro i 3.238 della Germania. I cosiddetti investimenti sanitari, quelli che servono a migliorare il capitale di tecnologie e strutture, sono solo 60 euro annui per abitante. In un settore ad alto tasso di innovazione è poco o nulla. «A questo si aggiunge la mancanza di una politica attiva sul personale», dice Fattore.
SOTTOPAGATI
Il 50% dei medici, il 40% del personale di supporto e il 21% degli infermieri che operano nel pubblico hanno più di 55 anni. Il ricambio generazionale non c’è e in alcune Regioni del Nord i medici pensionati sono già rientrati in ospedale pagati a partita Iva. L’introduzione di un provvedimento come Quota 100 ha peggiorato la situazione: nell’organico di categorie come i medici di famiglia si apriranno presto voragini. «Bisognerebbe ripensare il sistema delle scuole specialistiche e del reclutamento degli infermieri. E anche avere il coraggio di pagare meglio i manager: oggi un direttore generale con 5-6mila persone sotto di sé, un contratto di tre anni e un altissimo rischio politico, guadagna 150mila euro l’anno. Una cifra nemmeno paragonabile a quella del settore privato», dice Fattore. «Ci vorrebbe uno Stato, che fosse in grado di sostenere con competenze forti le Regioni meno efficienti. E un investimento da dieci miliardi per il futuro», conclude il docente della Bocconi. «Solo che nessuno ci pensa. La sanità sembra uscita dal dibattito pubblico. Dal punto di vista del consenso politico è più produttivo intervenire sulle pensioni».