Il Sole 24 Ore, 21 aprile 2019
Il pessimismo del fare di Ernesto Rossi
Ernesto Rossi (1897-1967), giornalista, politico, antifascista,..., è nato a Caserta.
Diciamolo subito, senza cincischiare con le parole: questi due libri pubblicati dalla Banca d’Italia sono bellissimi. La qualità della carta, la scelta delle illustrazioni, la cura degli indici, su tutto l’occhio si posa ammirato e fa festa. Ma oltre che una festa per gli occhi, entrambi i volumi sono una gioia per lo spirito perché restituiscono colore a un personaggio straordinario dell’antifascismo e dell’Italia repubblicana, a quell’Ernesto Rossi di cui Simonetta Schioppa ha individuato una per una (una per una, intendiamo?) tutte le pubblicazioni che gli furono compagne durante gli anni della detenzione e sulla base delle quali, poi, Massimo Omiccioli ne ha sbalzato il ritratto in pagine che d’ora innanzi resteranno fondamentali ad intendere un eroe della nostra storia recente. Sissignori: un eroe.
Lo testimonia, tra l’altro, un brano che nella sua asciutta sobrietà ci fa sfilare dinanzi una tale successione di sforzi, in un tale meraviglioso crescendo, che alla fine rimane nella mente l’impressione di una grandezza morale quasi senza fine. Ed è lì dove, venuto il tempo delle memorie, Ernesto Rossi ricordò così alcuni dei suoi giorni da carcerato: «Scrivemmo i nostri esercizi di analisi infinitesimale sui vetri della finestra con un bastoncino di sapone». Vietato. «Poi provammo a scrivere sul pavimento col pezzetto di gesso». Vietato anche quello. Quindi «disegnammo dei grafici facendo sui fogli una filza col filo nero. Ci tolsero gli aghi». E infine «continuammo a prendere di nascosto appunti sui foglietti che costituivano la limitatissima razione quotidiana di carta igienica». Ora, dite voi: se questa non è la forza dell’eroe, l’eroe chi è?
Ma dalla lettura di queste pagine si ritorna rinfrancati anche per un’altra ragione: perché in una epoca come la nostra che pare posseduta dal genio degli invasati, dove tanti indulgono al gusto di far colpo sul pubblico col botto delle provocazioni clamorose, in una epoca siffatta, è bene che vi si siano libri così, dove si dimostra per tabulas che uno tra i più puntuti dei nostri polemisti fu precisamente un uomo di studi e di principi. E tra i principi, quello che come una specie di mozzo faceva girare tutte le altre acquisizioni, c’era il pessimismo, l’idea cioè che «l’uomo conosciuto attraverso i secoli fa più paura che compassione; e fa specialmente paura quando per una qualunque circostanza viene a disporre di una certà autorità sugli altri uomini».
Ecco: se non partiamo da questa convinzione che colorava di umore nero la sostanza umana (e che originariamente gli derivava da Pareto), noi non comprenderemo nulla di Rossi. Non la critica del collettivismo per esempio, che da subito, senza la facile scienza del giorno dopo, Ernesto Rossi fulminò come la realtà più sciagurata che potesse abbattersi sulla libertà dei singoli. Perché – spiegava – quando viene abolita la proprietà privata (ossia il più efficace antemurale dello Stato) allora è giocoforza che i potenti di turno riuniscano nelle loro mani un potere smisurato; ma poiché gli uomini, specie gli uomini potenti, sono quello che sono, famelici e mascalzoni, questo potere abnorme sarà come l’argine rotto per l’arbitrio e gli istinti più feroci della loro bestialità. Solo, però, che gli uomini si imbestiano anche nella ricerca del tornaconto personale; se lasciati completamente liberi, il pazzo accanimento col quale perseguiranno il loro interesse li farà travolgere ogni cosa, moralità e decoro compresi. Donde l’amaro delle apostrofi che Rossi rovesciava su tutti coloro che, ebeti nel loro ottimismo, dimenticavano come «l’economia di mercato [assicurasse] risultati ottimi o pessimi a seconda dell’ordinamento giuridico, entro il quale i singoli operatori economici si muovono».
Ma dove il pessimismo di Rossi quasi incrudeliva era quando dava di cozzo nelle ipotesi autogestionarie (che pure avevano catturato l’immaginazione dei suoi compagni di militanza): «Gli operai – avvertiva – non potranno mai essere convinti da alcuna predica sulla solidarietà sociale (…); se un loro comitato li mette veramente in grado di influire sulla amministrazione dell’azienda, pensano per prima cosa a ridurre la fatica e ad aumentare i salari». Parole come pietre; meglio: come la pietra del sepolcro che quando cade non si alza più.
Vedete come è difficile ingranare Rossi con uno qualunque degli orientamenti tradizionali? E come perciò avesse ragione lui quando si accomodò in una formula (di origini humiane) apparentemente sbarazzina ma che di fatto lo riassumeva per intero. «Pazzo malinconico», si qualificò. E tale veramente fu: malinconicamente “pazzo” perché nonostante le incomprensioni e gli insuccessi, non disarmò mai e mai ripiegò su se stesso.
Il fatto è che la giustizia (un sentimento di cui non riusciva a darsi nessuna dimostrazione razionale: «È una verità che si sente – confessava – non si capisce»), la giustizia, dicevamo, gli si era confitta nel cuore ed egli perciò non poteva consentire al sopruso senza perciò stesso degradare la sua persona morale. Ed è per questo che – a differenza di Pareto – Rossi, dopo aver pronunciato le sue requisitorie, tornava uomo tra uomini, benignamente sensibile ai cedimenti del prossimo e soprattutto fraterno col dolore degli umili. Il che non lo rende più grande. Ma certo ce lo fa sentire più vicino.
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L’eredità di Ernesto Rossi.
Il fondo della Biblioteca
Paolo Baffi
a cura di S. Schioppa
e S. Mastrantonio
Banca d’Italia, Roma, pagg. 437, sip
La «strana» biblioteca di uno «strano» economista. Viaggio tra i libri di Ernesto Rossi
Massimo Omiccioli
Banca d’Italia, Roma, pagg. 417, sip