La Lettura, 22 aprile 2019
Stephan Micus suona gli strumenti del mondo
Non sa dire con esattezza se gli manca ancora qualche angolino sperduto del mondo da perlustrare. Ma crede di no. I suoi viaggi, Stephan Micus (classe 1953) – tedesco di nascita ma cosmopolita per esperienze sonore sparse lungo ogni latitudine e longitudine —, li ha sempre fatti per un motivo. Imparare a suonare gli strumenti degli altri e venire a stretto contatto con la loro cultura («Due facce della stessa medaglia»). Lo raggiungiamo al telefono nella stanza 1103 di un albergo di Medellín, in Colombia. Spiega subito che gli strumenti li impara, ma non per suonarli in modo tradizionale («tanto non potrei mai essere più bravo di loro»), ma ricontestualizzando la lezione all’interno della propria esperienza personale, dando vita a etnie immaginarie. Da ragazzino a Granada, in Spagna, ha imparato i trucchi della chitarra flamenco, poi in Giappone si è cimentato con lo shakuhachi (il flauto in bambù) e lo sho (l’organo a bocca), a Bali con il suling (un flauto), in Africa con il sinding (un’arpa) e il dondon (una percussione), in Armenia con il duduk (una sorta di oboe), in India con il sitar, in Afghanistan con il rabab (un liuto), in Egitto con il nay (un flauto), in Siberia con il Ki un Ki (strumento a fiato che produce il suono inspirando, anziché espirando) e l’elenco potrebbe continuare a lungo. Non sa nemmeno quanti ne suona («ogni tre mesi se ne aggiunge uno nuovo»). Micus – il suo nuovo disco, White Night, il 23° per l’etichetta Ecm, uscirà il 26 aprile – si è perfezionato anche in tecniche vocali e suona da solo. In disco utilizza la tecnica della sovraincisione di sé stesso, in concerto si alterna a diversi strumenti che si porta sul palco. Sempre da solo.
Micus, ma nei suoi viaggi come fa con tutti quegli strumenti?
«Ha toccato un punto delicato. Molti strumenti rappresentano la mia vita. Tutto ciò che posso lo porto come bagaglio a mano. Stivo solo strumenti facilmente sostituibili in caso di danno».
In Colombia presenta il nuovo disco?
«I miei concerti mischiano sempre il passato con il presente. Non mi piace fare la tournée per presentare solo il disco».
Lo strumento più difficile studiato?
«A 19 anni andai in India e mi trovai di fronte al sitar. Difficilissimo. Avevo finito gli studi e non volevo più vedere una scuola in vita mia. Neanche in foto».
Quando usa la voce, lo fa, a parte qualche rarissima eccezione, senza un testo, vocalizzando e basta.
«La voce non ha paragoni con nessun altro strumento. È la gioia dell’essere umano che si identifica con essa. Non servono le parole. In Fireflies, un brano del nuovo disco, ho sovrainciso la mia voce sette volte».
Cosa l’ha spinta a intraprendere il suo primo viaggio a sedici anni?
«A quattordici anni andai a Granada a studiare la chitarra con i maestri zingari. Poi a sedici andai in Marocco... Era il 1969 credo. Trovai un luogo magico. Mi sembrava di stare dentro un sogno».
Perché lei fa tutto da solo?
«Sono cresciuto in un paese dove non c’erano bambini con cui giocare. Quando ero più grandicello amavo la campagna e per fare musica con gli altri sarei dovuto andare in città e non mi piaceva. Mio padre era un pittore e lavorava da solo. Infine io mi considero un compositore e i compositori lavorano da soli. Ma in tutto ciò non c’è alcuna scelta dogmatica».
Lei vive a Maiorca, come mai?
«Negli anni Sessanta mio padre comprò una casa a Ibiza e quindi quelle isole le conosco da sempre. Non le so dire come mai vivo lì, ma le posso dire che è stata la decisione migliore della mia vita».
Quando ha iniziato a fare musica sul finire degli anni Sessanta, il jazz cominciò a cercare nuova linfa nella musica del Terzo Mondo. Don Cherry, all’Art Ensemble of Chicago... Lei che rapporto ha avuto con quel jazz?
«Nessuno. Quello che mi sconvolse allora fu l’arrivo in Germania dei dischi di Ravi Shankar e di musica indiana».
Come si impara una musica che non ci appartiene come cultura?
«Bisogna imparare non solo la musica, ma anche le tradizioni di vita di quelle popolazioni. Solo così si può realmente entrare nel loro mondo. Devi capire il loro cibo, la loro religione, le loro abitudini. Per questo quando qualcuno mi chiede di insegnare rispondo che non posso e che devono andare sul posto».
Se diciamo world music, si infastidisce?
«Adesso è una definizione che non ha alcun senso. Lo poteva avere quando iniziai io e c’erano gli Oregon. Allora significava voler mischiare culture differenti per creare realmente qualcosa di nuovo. Adesso è una definizione di comodo».
È interessato ai compositori d’oggi?
«Sì, a uno in particolare, Arvo Pärt. Mi piace la sua spiritualità. Ci siamo frequentati un poco».
A proposito di spiritualità lei ha inciso un disco legato ai monaci del Monte Athos in Grecia. Come andò?
«La prima volta che andai in costa calcidica era il 1972. Scuole finite e il classico gruppo di amici. Negli anni Ottanta tornai in Grecia per una serie di concerti; mi avvicinò un giovane monaco che diceva di essere del Monte Athos e un mio fan».
E lei che fece?
«Lo ascoltai, diventammo amici. Mi portò sul Monte – allora servivano permessi speciali – e lì nacque il progetto che diventò un disco».
C’è più tornato?
«Purtroppo sì. Ma non lo farò mai più. Hanno rovinato quel posto magico. Ora i monaci hanno il cellulare e la jeep, sono state asfaltate le strade, ed è partito il business dei monaci».
E il suo giovane amico monaco?
«Fu mandato ad Atene per comperare un furgone Volkswagen. Conobbe una donna, si spretò e si dileguò nel nulla».