La Lettura, 22 aprile 2019
Franzen contro gli ambientalisti illusi
Con la sua fama di antipatico, adesso Jonathan Franzen apre il fuoco amico sul riscaldamento climatico. Non ce l’ha solo con «la destra negatrice della scienza», che diffonde bugie sulla crisi ambientale per nascondere le responsabilità umane. L’acclamato scrittore statunitense ce l’ha anche con gli altri. L’ira dell’amante tradito era scattata quando nel 2014 la Audubon Society, un tempo adorata da Franzen per la lotta secolare in difesa delle specie di uccelli in via di estinzione, aveva dichiarato che il cambiamento climatico sarà la principale minaccia per la sopravvivenza dei volatili. Non è vero, aveva protestato l’accanito birdwatcher Franzen sulle pagine del «New Yorker», perché le cause reali di morte degli uccelli, qui e ora, sono gli odiati gatti, le finestre senza segnaletica anticollisione, i pesticidi e la distruzione degli habitat.
L’intemerata contro gli apocalittici e i «professionisti del riscaldamento climatico» che monopolizzano l’attenzione aveva ricevuto una bordata di furenti critiche via social network. Franzen ora rincara la dose. Focalizzarsi soltanto sul cambiamento climatico globale significa che la colpa è di tutti, quindi di nessuno. Questo «climatismo» rischia di diventare un’escatologia estraniante, con il giorno del giudizio che viene continuamente rimandato e alla fine nessuno ci crede più.
Lo scrittore, rintanato a Santa Cruz in California, muove le sue critiche da posizioni socialiste e ambientaliste. Dando la precedenza solo al clima si avallano progetti colossali e devastanti: dighe, parchi eolici e solari, monocolture per produrre biocarburanti. Invece ci vorrebbe una strategia dal basso: tanti progetti piccoli e sostenibili in cui la scienza si allea con le comunità locali per salvare ciò che si ama direttamente, con risultati tangibili, come fanno alcune Ong in Costa Rica e in Perù che coniugano protezione ambientale e giustizia sociale. Non si può insomma mitigare il riscaldamento climatico (e i sensi di colpa) a scapito della biodiversità.
Franzen è convinto di essere una molteplicità di io e di dover coltivare sempre il sospetto di essere nel torto. Nella raccolta La fine della fine della Terra (Einaudi) si mette in discussione e riflette sulla sua reazione di tre anni fa. Teme che l’ansia per catastrofi future distolga l’attenzione da quelle in corso, cioè l’estinzione di massa della diversità di piante e animali (soprattutto uccelli, dal suo punto di vista ossessivo). Sa che contrapporre la conservazione al riscaldamento globale non ha senso, perché quest’ultimo è una delle cause della perdita di specie. Infatti descrive benissimo gli effetti nefasti dell’acidificazione degli oceani nella regione antartica, dove ha trascorso una costosa e inquinante crociera in cerca di pinguini. Franzen però non ricorda che il riscaldamento climatico non è un futuro vago, è il presente.
L’amore per la provocazione e il suo pessimismo da depresso e asociale conclamato lo portano, per sua stessa ammissione, a radicalizzare le posizioni. Nel nuovo libro sostiene che dovremmo ridurre le emissioni, certo, ma non lo faremo. Lo sviluppo dei Paesi poveri andrà a scapito dell’ambiente. Il singolo non percepisce il suo minuscolo contributo alla causa generale e tende prima o poi a disinteressarsene. Se il cambiamento climatico è il problema centrale del nostro tempo, dobbiamo accettarne francamente la realtà e risarcire il Bangladesh. Quindi l’ottimismo di sinistra di Naomi Klein, convinta che solo una rivoluzione globale anticapitalista entro i prossimi dieci anni ci potrà salvare, secondo Franzen è irrealistico. Evocare un’azione collettiva mondiale significa negare la cupa realtà e rifugiarsi nella rassicurante finzione che le nazioni lasceranno davvero il carbone residuo nel sottosuolo.
La diagnosi pertanto è già fatta. Quando si passa ai rimedi, le proposte secondo la caustica penna del «New Yorker» si fanno «tragicomiche»: fare la spesa dal contadino, mettere lampadine a basso consumo. L’azione più efficace sarebbe in ultima istanza non avere figli. Ma non è praticabile, perché un mondo senza giovani sarebbe ancora più terribile. E dunque navighiamo dentro un paradosso, ben sapendo che stiamo andando a sbattere.
Per un ambientalista intriso di puritanesimo (a suo dire, due modi per pensare che gli esseri umani siano intrinsecamente colpevoli) è difficile trovare vie di mezzo. Sembrando sincero in ognuno dei suoi ripensamenti, alla fine non si capisce bene quale sia il suo pensiero, anche perché la miscellanea di saggi è assai eterogenea. Si passa dai reportage esotici di birdwatching ai ritratti di amici scrittori, dalle strade anonime di Philadelphia alla ricerca di un uccello rarissimo sulle sperdute isole Chatham. Unica filigrana comune è l’amore per l’alterità e la libertà, appunto, degli uccelli. Franzen è un elencatore compulsivo di specie avvistate, ma rassegnato a non vedere nell’arco della vita tutte le diecimila specie esistenti.
Al netto delle provocazioni, occuparsi di ciò che accadrà fra 50 anni non è una sciocchezza come pensa Franzen. Ma è convincente quando scrive che la vera domanda oggi è come conservare la natura in un mondo di diseguaglianze e di conflitti umani. E poi il nostro cervello non si è evoluto per affrontare una crisi così vasta sia nel tempo sia nello spazio. Con gli occhi piantati sulla palude di opinioni narcisistiche e autoreferenziali della rete – obiettivo polemico dello scrittore che qui ritorna – perdiamo il senso delle grandi questioni.
A torto o a ragione, il pessimismo delle piccole cose di Franzen è comunque uno strattone salutare. Ci ricorda che sia la nostra mente sia il mondo sociale ed economico attuale sono progettati sulla miopia. Il cambiamento climatico è una trappola cognitiva: ci siamo dentro, ma non siamo capaci di pensarlo per davvero. Siamo programmati per non essere lungimiranti. Negazionisti o illusi, «ci penseremo quando sarà il momento», chiude Franzen, cioè quando il pericolo sarà imminente o forse sarà troppo tardi.