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 2019  aprile 21 Domenica calendario

Biografia di Emanuele Macaluso raccontata da lui stesso

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Quasi trequarti di secolo trascorsi vivendo, pensando e ripensando il comunismo. Gran bella idea, gran bella condanna. Verrebbe da dire pensando a Emanuele Macaluso. Da un mese ha compiuto novantacinque anni, vive in un piccolo appartamento a Testaccio, un tempo considerata la zona più autentica di un certo modo di essere romani. Emanuele è nato a Caltanissetta, la città degli angeli e delle miniere di zolfo. Fu quel mondo a strapparlo dai sogni di adolescente e a spingerlo dentro alle grandi problematiche sociali: «Durante i mesi trascorsi in sanatorio conobbi il primo compagno. Fu lui a introdurmi al comunismo. A fare da tramite presentandomi a Calogero Boccadruti, uomo straordinario cui era affidata l’organizzazione della rete clandestina del partito: lì nel 1941 ebbi i primi contatti».
Parli di un periodo trascorso in sanatorio. Che cosa avevi?
«Mi avevano diagnosticato la tubercolosi. Me ne accorsi dopo una notte passata a tossire. La mattina seguente vidi il cuscino e il lenzuolo macchiati di sangue. Lo dissi ai miei fratelli e loro lo riferirono a nostro padre. Lui chiamò un medico che mi fece prontamente ricoverare nel sanatorio. Era su una collina da cui si vedeva Caltanissetta».
Cosa provasti?
«Avevo 16 anni e nessun senso della tragedia. I miei erano preoccupati. Si diceva che chi entrava in quel luogo era facile che ne uscisse con i piedi allungati. Si pensava che la tubercolosi si trasmettesse anche per via aerea e questo determinò il mio isolamento. Erano in molti a temere il contagio. Un’eccezione fu quel mio amico, Gino Giannone, più grande di un paio d’anni, figlio di un libraio e sufficientemente colto da instradarmi oltre che alla politica anche alla lettura dei libri. In casa avevamo dei testi che mio padre aveva raccolto nel tempo».
Di che cosa si occupava?
«Era manovale delle ferrovie. Impromovibile, come fu scritto su una scheda aziendale. Il fascismo lo considerava un elemento inaffidabile. Solo dopo la liberazione gli fu riconosciuto il grado di aiuto macchinista».
Ti fece studiare?
«Per quel poco che le condizioni economiche lo consentivano. Eravamo tre fratelli. Avrei fatto volentieri il ginnasio. Ma alla fine dovetti accettare l’istituto tecnico minerario. Comunque fu una scuola dura, dove si studiava per otto ore al giorno. Non l’ho amata. Me ne sono fatto una ragione».
La malattia che conseguenze ha avuto?
«Nessuna. Lentamente tutto si riassorbì. Tra gli effetti imprevisti, oltre l’incontro che avrebbe contribuito alla mia scelta comunista, ci fu la conoscenza di una donna, della quale mi innamorai. Era sposata. Ma viveva separata con due figli. Cominciammo ad avere una storia clandestina».
Non ti bastava la cellula.
«Che avrei dovuto fare? Strombazzare la nostra storia? Dopo la liberazione resi pubblico il legame. Le famiglie si opposero. Ma cosa ben più grave il marito di Lina, probabilmente istigato dai notabili locali, ci denunciò per adulterio. Fummo arrestati. Feci qualche settimana di carcere e poi venimmo condannati a sette mesi. Uscii con la condizionale e ripresi il lavoro, dividendomi tra una tipografia e l’impegno politico. Nel frattempo la madre di Lina, una vedova piuttosto facoltosa, ci mise a disposizione un appartamentino dove andare a vivere. Insomma, la situazione si normalizzò».
Come reagì il partito alle tue vicende?
«All’inizio male. Una situazione come la mia non poteva che essere disapprovata. Era il 1944. L’organizzazione politica in pieno fermento. Gli appelli al rigore e alla moralità erano quotidiani. Il Pci di fatto mi processò per la mia condotta privata. Ne uscii assolto e iniziai a percorrere seriamente la mia strada. Ma invece di abbracciare il partito, come alcuni dirigenti volevano, preferii il lavoro sindacale. Un impegno che mi portò a ricoprire il ruolo di segretario regionale, carica che tenni fino al 1956, l’anno dei fatti di Ungheria».
Nel sindacato la figura di riferimento era Giuseppe Di Vittorio. Hai avuto rapporti con lui?
«Fu lui a propormi come segretario regionale. Perciò l’ho conosciuto bene e ritengo sia stato un leader straordinario. Il più amato dell’intera storia sindacale. Aveva doti umane e politiche come raramente si ritrovano in un uomo. Sapeva comprendere le esigenze di chi lavorava. Guardava ai suoi braccianti, ai contadini, agli operai con l’intelligenza di chi sa andare oltre la rivendicazione salariale immediata, che pure era la questione imprescindibile da cui partire».
Da un certo punto in poi i rapporti tra lui e il Pci si inasprirono. Un altro caso di divisione a sinistra.
«Credo che in questo siamo degli specialisti. Ma per restare a Di Vittorio, lo scontro avvenne in relazione ai fatti di Ungheria del 1956. Il segretario della Cgil disse che lì era in corso una rivolta dei lavoratori. E che bisognava condannare l’invasione sovietica. Tutta la direzione del partito si schierò contro di lui. In pratica fu lapidato. E ho la certezza che quello fu il più grave errore commesso da Togliatti».
Tu con chi stavi?
«Ero appena entrato nella direzione. Mi vergogno a dirlo, sostenni la posizione del partito».
Tu che c’hai vissuto più di cinquant’anni com’era la vita nel partito?
«Si sono dette tante cose su quel partito. La più ricorrente è che fossimo una specie di chiesa con i suoi sacerdoti e i suoi riti».
Io penso che il partito comunista senza liturgia sarebbe incomprensibile.
«Tu trovi? Io non credo che fosse il nostro problema. Avevamo una organizzazione, estesa e radicata sul territorio. Con regole ben precise. Da rispettare. Sentivamo da vicino quali fossero i bisogni della gente, perché erano anche i nostri bisogni».
Da un lato la casa del popolo, dall’altro il campanile.
«E che c’è di male? Siamo andati avanti per trent’anni con questa dialettica. Sapendo che c’era una democrazia da rafforzare e una Costituzione da difendere. Poi, capisco che le cose cambiano, che la gente si rompe i coglioni di lottare o sacrificarsi per un partito. Ma c’erano delle idee, cazzo! Un bracciante o un operaio avevano letto più libri dei nostri vice premier. E lascia stare se erano i libri giusti o meno (per me lo erano), però si informavano, crescevano culturalmente».
Crescevano e viaggiavano su binari precisi e guai a deragliare.
«Tutta questa storia del partito occhiuto controllore di un’ideologia culturale a me ha stancato. Che ti aspettavi, che un partito di quelle proporzioni non provasse a esercitare anche un’egemonia culturale? Gli altri che cosa pensavi volessero fare? Noi avevamo i mezzi, le persone, le strutture per poterci provare. Lo dico senza pentimenti, perché non c’è battaglia culturale che non sia anche politica e viceversa».
La politica quasi sempre aveva il sopravvento sulla cultura. Pensa al caso Vittorini.
«Elio l’ho conosciuto bene. Nella biblioteca della camera del lavoro di Caltanissetta tenevano la serie “Americana” e posso capire che alcuni dirigenti del partito non apprezzassero queste aperture».
Ti stai riferendo a Mario Alicata.
«Proprio a lui che commentò acidamente che Vittorini avrebbe dovuto leggere meno Hemingway e più Marx. E quando uscì Uomini e no, il libro ebbe una recensione favorevole sull’Unità di Milano e una stroncatura sull’edizione romana».
Chi firmava la stroncatura?
«Fabrizio Onofri, il quale parlò del libro in modo impietoso al punto che Togliatti scrisse una lettera a Vittorini dissociandosi da quel giudizio ed esprimendogli tutta l’ammirazione per quello che aveva scritto».
Lo stesso Togliatti che nel 1947 gli stroncherà la rivista “Il Politecnico”.
«Potremmo stare qui a discutere su quell’episodio fino a domattina. Sta di fatto che Vittorini non fu espulso, se ne andò e Togliatti ironizzò su quell’uscita scrivendo: “Vittorini se n’è ghiuto e soli ci ha lasciato!”».
La vita culturale del Pci è segnata da ricorrenti scontri. Un altro conflitto, che vide coinvolto un segretario, fu quello tra Berlinguer e Sciascia.
«Le premesse di quello scontro non ebbero nulla di ideologico visto che riguardavano il rapimento Moro e le Brigate rosse. Tieni conto che io ero molto amico di Leonardo e lavoravo nella segreteria di Berlinguer. Sapevo benissimo com’era».
E com’era appunto?
«Un uomo fondamentalmente timido, come Sciascia del resto. Qualcuno disse che fu un dialogo tra due muti che finirono col querelarsi a vicenda per incomprensione. La storia in breve è questa: Sciascia chiese a Berlinguer se le Br si addestravano militarmente in Cecoslovacchia. E scrisse che Berlinguer glielo aveva confermato. Il quale negò, di qui l’alterco che stava per finire in tribunale. Poi le querele furono ritirate e Sciascia commentò: vedi, le liti giudiziarie in Italia finiscono sempre così».
In quella vicenda fu coinvolto anche Renato Guttuso?
«Renato fu sentito come testimone, perché pare fosse presente. E diede ragione a Berlinguer. Sciascia se ne risentì al punto da rompere l’amicizia con Guttuso. Non volle più vederlo. Quando andai a trovare Sciascia che era già ammalato gli chiesi se voleva in qualche modo riappacificarsi con Guttuso. Mi guardò, sollevandosi lievemente dal guanciale: non lo voglio neppure al mio funerale, disse con un filo di voce».
E Guttuso?
«Era dispiaciuto, lui avrebbe volentieri fatto pace. In ogni caso morì prima di Sciascia. E strano a dirsi fu anche lui toccato da un gran rifiuto».
A cosa ti riferisci?
«Posto che è sempre stato un uomo cui piacevano le donne, non accettò di buon grado che la contessa Marzotto si fosse messa con uno più giovane».
Ti riferisci a Lucio Magri?
«A lui. Ricordo un viaggio che feci in Unione Sovietica con Renato e la moglie Mimise. Io ero con Ninni Monroy, la mia nuova compagna. Ogni tanto arrivavano in hotel delle telefonate complicate. Renato mi diceva: “Ti prego distrai Mimise che al telefono c’è Marta”. Fu un rapporto tumultuoso il loro. Ma alla fine di tutta la loro lunga storia lui non volle più vederla. Mimise era morta da qualche mese. Me lo ricordo Renato sdraiato sul divano perché non ce la faceva a stare in piedi a dire no. E la Marzotto accusò me e Antonello Trombadori di impedirle di vedere Renato. Anche in questo caso rischiammo di finire tutti in tribunale».
Anche tu sei stato uno sciupafemmine.
«Non userei quell’espressione. Diciamo che ho avuto donne con cui ho condiviso delle lunghe stagioni. Accompagnate da cose belle e da episodi dolorosi, come quando ahimè lasciai una ragazza senza poter immaginare le conseguenze di quel gesto».
Tu ne hai scritto come se volessi liberarti da un peso. La ragazza era la sorella di Eugenio Peggio, importante economista del Pci.
«E mio grande amico. Conobbi Erminia nel 1964 dopo un paio di anni tra noi nacque una storia d’amore. A un certo punto mi chiese di metterci insieme e io, poiché ero già legato e con dei figli, non ebbi il coraggio».
Lo hai definito un gesto di “viltà”.
«Tale fu, perché non riuscii ad affrontare la situazione, nella convinzione che né Lina né i miei figli avrebbero accettato la rottura. Fu un bel casino e tutto precipitò quando Erminia, segnata da alcune fragilità, pochi mesi dopo si suicidò».
Ci furono ripercussioni nel partito?
«Sono stato malissimo ed era l’ultima cosa che mi importava. Però ci furono. Amendola istruì una specie di inchiesta. Ma ne venni a conoscenza molto tempo dopo. Fu lo stesso Eugenio, fratello di Erminia, a dirmi, quando finalmente c’eravamo riappacificati, che Amendola gli aveva chiesto di formalizzare l’accusa di “ scorrettezza morale”. Ma poi non se ne fece niente».
Contavano un po’ meno i doveri del militante.
«Diciamo che si stava attenuando l’accanimento moralistico. Pensa a quello che ha dovuto passare Togliatti dopo essersi messo con Nilde Iotti. Ma come il suo o il mio caso, ce n’erano altri. Questo era il partito comunista, con le sue grandezze e le sue miopie».
Ti manca, intendo il partito?
«Mi mancano le persone che ho incontrato e con cui ho stretto rapporti di conoscenza e di amicizia. Mi mancano certi gesti, certe intelligenze: come quella sottile di Togliatti, dotta di Bufalini o sofferta di Berlinguer. Qualche giorno fa ho festeggiato i novantacinque anni. C’erano ancora amici, molti dei quali più giovani. Ero lì e pensavo ai pochi della mia generazione rimasti, come Giorgio Napolitano, e ai tanti che non ci sono più. Mi mancano. Ma non mi manca il partito. Soltanto un cretino potrebbe pensare di rifare il Pci. Però mi manca la sinistra. Di quella abbiamo bisogno. Quella va ripensata. Ma non so se avrò il tempo di vederla. Temo che arriverò prima io al capolinea».