Robinson, 21 aprile 2019
La videoarte di Lizzie Fitch e Ryan Trecartin
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La vita è breve e certa arte troppo lunga. Questa affermazione si potrebbe applicare alla mostra di Lizzie Fitch e Ryan Trecartin, alla Fondazione Prada di Milano fino al 5 agosto. Ma ugualmente si potrebbe applicare ad un romanzo del mago dell’orrore Stephen King. Quindi non sempre l’eccessiva lunghezza di un’opera d’arte è una cosa negativa. Durata e densità a volte sono intimamente legate. Il progetto di questi due americanissimi artisti è intitolato Whether Line, intraducibile. È un gioco di parole fra la parola whether, intesa come congiunzione ipotetica “se”, e la deformazione della parola weather, tempo meteorologico. Tempo meteorologico e ipotesi di una società alternativa sono due elementi alla radice di quella società americana all’eterna ricerca di nuove frontiere. La mostra, che è stata concepita in una zona rurale dell’Ohio dove gli artisti si sono trasferiti a vivere, rappresenta il sogno ipotetico di un ritorno incondizionato alla libertà della terra e della natura.
Libertà che però gli artisti hanno subito capito essere illusoria. Primo perché in mezzo alla natura è appunto il tempo meteorologico a diventare tiranno delle nostre abitudini e delle nostre attività. Secondo perché la propria terra, per quanto grande possa essere, è tuttavia sempre delimitata da confini invisibili oltre ai quali si trovano altre terre dove coloro che le posseggono hanno magari un concetto diverso di libertà rispetto al nostro. Problema nel quale si sono imbattuti gli artisti trovandosi a combattere con vicini che poco apprezzavano le abitudini eccessivamente creative del gruppo di persone con le quali Fitch e Trecartin hanno collaborato nella costruzione della mostra e del film Whether Line. “La Gabbia Umana” sarebbe stato allora un titolo più chiaro e appropriato per questo progetto. Non è un caso che due grandi gabbie siano una bella parte di un’installazione che si snoda nell’architettura degli spazi della Fondazione. La società, anche la più libera, è fatta d’altronde di gabbie invisibili che vanno dalle transenne che regolano le file negli spazi pubblici ai sistemi di sicurezza degli aeroporti e via di seguito.
Chi esce da queste gabbie è immediatamente visto come un animale in fuga pericoloso, da catturare o da sopprimere. Il paragone con la letteratura di King non è casuale. I suoi romanzi si sviluppano sempre dentro gabbie invisibili ed apparentemente pacifiche dove esce o entra qualche elemento demoniaco capace di generare caos e terrore. I vari video che fanno parte dell’installazione, per quanto abbastanza incomprensibili, riescono a trasmettere ugualmente la sensazione che caos e terrore siano sempre in agguato. Lizzie Fitch, nata in Indiana, e Ryan Trecartin, nato in Texas, sono entrambi del 1981. Entrano per il rotto della cuffia fra i millennial. Hanno ancora le loro radici nella cultura televisiva prima di diventare testimoni dell’alba dei social. La classe sociale definita spregiativamente white trash, spazzatura bianca, terra di conquista di Trump, è la mangiatoia che li aiuta a crescere in quella confusa e assolutamente americana atmosfera dove illusione, delusione e risentimento si scambiano continuamente i ruoli. Confusione trasmessa molto bene allo spettatore che attraversa la prima gabbia vuota, ma piena di voci. Un chiacchiericcio che ti assale e dal quale vogliamo fuggire. Ma la fuga non è possibile. Ci infiliamo in un’altra gabbia, un tunnel dove le parole sono sostituite dal rumore di una pioggia scrosciante.
Attraverso il temporale sonoro arriviamo davanti all’enorme barn, il classico fienile dell’agricoltore del Midwest. Tanto per confonderci un po’ di più, gli artisti hanno rivoltato questa architettura come un calzino, il dentro diventa fuori, il tetto diventa pavimento, il pavimento diventano tetto. Il fienile proietta sulla mostra l’ombra di un altro modello negativo, l’Unabomber, al secolo Ted Kaczynski. Il professore di matematica che fra il 1978 e il 1995 seminò il terrore mandando pacchi bomba in giro per l’America, disgustato dagli abusi del capitalismo e della tecnologia. Kaczynski come i nostri artisti aveva cercato rifugio nella natura isolandosi dentro una baracca che aveva costruito in un bosco del Montana. Fortunatamente l’arma degli Unartists Fitch e Trecartin è l’arte, non una bomba. Arte comunque emotivamente esplosiva nella quale trascinano in modo attuale e forse involontario lo spirito di grandi scrittori americani come Thoreau o Whitman che alla metà del XIX secolo predicavano e cantavano il ritorno alla terra. La mostra certamente non è semplice da digerire.
Lo spettatore potrebbe trovarsi spaesato, ma su comode sedie a dondolo bianche, di quelle che stanno sotto i portici delle fattorie del Far West, potrà dondolarsi e rilassarsi guardando proiezioni di paesaggi desolati, liti familiari e conversazioni interpretate dagli artisti e dai loro amici, senza farsi troppe domande. D’altronde la forza dell’arte americana e della sua narrazione è sempre stata quella di farci scavalcare dettagli e sfumature per condurci al cuore del racconto e alla sua morale. La profonda morale di questa favola buia è che la ricerca ossessiva di una libertà individuale può avere l’effetto opposto intrappolandoci dentro gabbie mentali e una desolazione sociale devastante. Nel film di Wim Wenders Paris, Texas del 1984 il protagonista Travis chiede al fratello di portarlo a Paris, che però il fratello scoprirà non essere la capitale della Francia ma un pezzo di terra desolata nel mezzo del Texas chiamato Paris. Come Travis Fitch e Trecartin sono andati a ricercare la loro personale Arcadia in un luogo con un nome altisonante: Athens… peccato sia in Ohio. Perché il sogno o la tragedia americana nasce nell’immaginazione, cresce nella fantasia di una passato mai vissuto ma ha sempre bisogno di morire nella concreta brutalità della realtà.