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 2019  aprile 21 Domenica calendario

«Troppo facile essere Ai Weiwei». Intervista a Qui Zhijie

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«Oggi abbiamo il Gps che ci dice fra quanto girare e dove. Ma abbiamo perso la visione di insieme, la capacità di disegnare le nostre mappe e di esplorarne i margini». Qiu Zhijie, 50 anni, passeggia tra le sale appena rinnovate dell’Ucca, il più importante museo di arte contemporanea di Pechino. Alle pareti ci sono le sue enormi “mappe mentali”, scelte per la mostra di riapertura: la mappa di tutti gli oggetti, quella delle memorie, dell’arte, degli “ismi”, la mappa delle mappe; sui grandi pannelli ogni concetto è trasfigurato in continente, isola, fiume o montagna, elemento di una cartografia universale. Qiu ci lavora da dieci anni, mentre insegna all’Accademia centrale d’Arte, la più rinomata del Paese. Si scalda, soffia parole affilate e saliva, quando gli chiedi come vive un artista “di sistema” nella Cina di Xi Jinping: «Sarebbe facile essere come Ai Weiwei, dire “fanculo” e fare soldi in Occidente. Preferisco stare qui e insegnare».
Perché l’artista diventa cartografo?
«Sembra un lavoro di basso profilo, chino su un tavolo. Ma disegnare una mappa significa organizzare i concetti. In passato avevamo un modo semplice, impreciso ma olistico di capire il mondo: c’erano cielo, terra, uomini e mostri. Oggi i motori di ricerca ce ne restituiscono una visione frammentata. E il Gps con il suo zoom e il suo controllo ci ha tolto la capacità di navigare, di ricordare la strada verso casa o verso un amore. Le mappe ricreano una nozione collettiva, una visione complessiva del mondo».
Ma le mappe devono essere efficaci, portare a destinazione. Nelle sue invece ci si perde.
«Vero, ma il mio obiettivo non è offrire una mappa universale, bensì spingere le persone a costruirsi la propria».
Per disegnare i confini si combatte: le mappe sono uno strumento di potere?
«Da millenni si combatte solo per questo, e ancora oggi dal Medio Oriente al Mar Cinese Meridionale. Anche quello dei rifugiati è un problema di mappe. Il fatto è che non abbiamo più una nozione di mondo, una mappa del mondo, ma solo una carta internazionale: Stati Uniti, Cina, Corea, Francia, Italia (Inizia a disegnare). Invece una vera mappa del mondo è così: cielo, terra, essere umano, dio, fantasma, passato, futuro».
Le rivendicazioni territoriali della Cina sono sempre più forti. È perché lo stesso nome, Zhong Guo, l’impero “al centro”, viene dalla geografia?
«Perfino all’asilo, sulla cartina, fanno disegnare ai bambini le isolette del Mar Cinese Meridionale. Ogni Stato nazione lo chiede ai suoi figli, la novità è che la Cina non è mai stata uno Stato nazione, concetto che viene dall’Europa. Si è sempre pensata come una civilizzazione, una comunità a cui gli altri popoli potevano appartenere pregando Confucio. Più che “al centro”, Zhong significa “luogo di comunicazione”, dove le persone si incontrano. Un luogo che bilancia e neutralizza il conflitto».
Elimina il conflitto o le diversità? La Cina oggi rieduca a forza un milione di musulmani nello Xinjiang, assimila le religioni...
«Quella diversità io la chiamo mosaico, si trova a East London e dà origine al terrorismo. Un sistema che in superficie sembra egualitario, ma in cui tutte le comunità sono separate. Non credo che sia meglio di ciò che la Cina ha, cioè l’abilità di modificare e assorbire le culture».
Fra tre settimane a Venezia inizia la Biennale. Nel 2015 molti definirono il padiglione cinese, che lei aveva curato, “nazionalista”.
«La Biennale è un lavoro sporco, ho avuto 45 giorni per scegliere le opere, con la mafia di Internet sempre pronta a criticarti. La mia selezione era anti-individualista e anti- elitaria, andava contro l’idea dell’artista come un dio ispirato che lavora in solitudine. La creazione è collettiva e attraversa le generazioni».
Che significa essere un artista di sistema in questa Cina?
«Dei ragazzi arrabbiati pensano che se insegni alla scuola d’arte non sei un artista contemporaneo, che devi dire “fanculo” come Ai Weiwei. Io so come essere Ai Weiwei, conosco l’arte alla moda ma penso che l’arte cinese sia altro, so come dirti ciò che vuoi sentire sui musulmani dello Xinjiang, capisco le regole del gioco. Ma i ragazzi dell’Accademia? Credo che abbiano bisogno di qualcuno che li porta ad esplorare nuove possibilità».
Nella sua mappa dell’arte cinese però Tienanmen viene definita un incidente. Lei, uno dei leader della protesta, ora è complice del falso?
«Non ci ho pensato».
Con Xi Jinping la Cina è meno libera?
«Non credo, sono le solite domande dei giornalisti stranieri. Il sistema è ovunque, in tutto il mondo. Il mercato dell’arte è un sistema terribile, che genera un eccesso di opere senza cervello, controllo e oppressione. Non c’è uno spazio fuori dal sistema, quindi il problema non è se stare dentro o fuori, ma come spingere la società avanti nell’area grigia in mezzo. E lo puoi fare ovunque».