la Repubblica, 21 aprile 2019
I segreti del successo di Giovanni Ferrero
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Non compare mai in tv, a differenza dei big della politica. Non sappiamo chi stira le camicie in casa sua, quali sono i suoi gusti musicali, a quali feste viene invitato. Forse anche per questa sua riservatezza, un tratto di famiglia, è ancora lui l’uomo più ricco d’Italia. Sappiamo, naturalmente, che cosa mangia a colazione. E se anche una mattina decidesse di non spalmare la Nutella, Giovanni Ferrero non lo farebbe mai sapere. Non potrebbe. Cinquantaquattro anni, uno in meno della crema di cioccolato più famosa del mondo, dal 2015 guida la multinazionale dove, secondo un’indagine, gi itaiani preferirebbero lavorare. È un tipo pratico, che si è dato una missione tra il serio e l’ironico: «Rendere il mondo più dolce di come l’ho trovato». Ha un patrimonio che Forbes valuta in 22,6 miliardi di euro e da qualche tempo cerca fortuna soprattutto in America.
Un secolo dopo Ellis Island, ripercorre la strada dei milioni di italiani che nel Novecento attraversarono l’Atlantico. Lo fa con una valigia piena di soldi. E acquista società, entra in catene di vendita, si garantisce un posto al sole sugli scaffali dei mall sparsi in Nordamerica. Il recente acquisto di una parte delle attività di Kellogg è solo l’ultimo capitolo di una lunga storia. Lo aveva promesso all’indomani della scomparsa del padre, Michele, il principale artefice della fortuna di famiglia: «Dobbiamo osare, superare le colonne d’Ercole». Bella frase, ma in concreto?
All’epoca, era il luglio del 2015, tutti pensarono a una metafora di quelle che fanno bella figura nei discorsi ufficiali. E invece era un annuncio, la rottura di una regola. Tutte le famiglie, anche le più ricche e felici, hanno dei tabù. Uno dei due dogmi sacri dei Ferrero era che tutto si doveva fare in azienda. Si cresceva tutti insieme, scelti uno per uno nella lunga storia della multinazionale del cioccolato. Guai ad acquistare una società in blocco: non sai mai chi ti porti in casa. Giovanni aveva capito presto che quella regola andava superata: «Dobbiamo cambiare pelle», aveva detto.
Era tornato ad Alba quattro anni prima, nel 2011. Precipitosamente. In giorni drammatici. Il pomeriggio del 18 aprile, a Camps Beach, sulla strada costiera di Città del Capo dove si incontrano gli oceani, l’Atlantico e l’Indiano, il fratello Pietro era morto d’infarto durante una gita in bicicletta.
Pietro era un appassionato. Si ritagliava lo spazio per pedalare anche durante le convention con i manager del gruppo. Dovevano scegliere la sede migliore per il nuovo stabilimento in Sudafrica.
Non sarebbe toccato a Pietro deciderlo. Sarebbe stato lui invece a riunire ancora una volta sulla piazza del Duomo l’intera città di Alba. E con lei un pezzo dell’Italia che conta: il premier dell’epoca, Silvio Berlusconi, il segretario di Stato vaticano Tarcisio Bertone, le autorità locali. Sarebbe toccato a Giovanni prendere sulle spalle il peso del futuro di un’azienda e di una comunità, promettere solennemente di fronte al padre Michele che «la storia di successo della Ferrero non si interromperà». Promessa ripetuta quattro anni dopo, sulla stessa piazza, di fronte alla stessa comunità, riunita per la morte del patriarca. Così Giovanni, quello che aveva scelto la finanza, una vita defilata, tra Bruxelles e il quartier generale della holding in Lussemburgo, aveva dovuto indossare l’abito del comandante in capo, del front man del gruppo, un ruolo che forse molti pensavano avrebbe ricoperto un giorno Pietro. Per questo la promessa di «superare le colonne d’Ercole» era qualcosa di molto più importante di una metafora.
Era invece una dichiarazione programmatica. Prima di Kellogg, molto prima di Kellogg. In un certo senso, anzi, quest’ultima acquisizione è la fine di una storia, della sua prima parte almeno.
Giovanni ha camminato con cautela. Non si va oltre le colonne d’Ercole a cuor leggero, con spensieratezza. Certamente non lo fa un Ferrero. La prima mossa, del 2015, è su un mercato oltre Gibilterra ma non troppo. La britannica Thortons viene acquistata per 157 milioni: «Ci offre grandi opportunità di crescita in quell’area», spiega Giovanni. Ecco un elemento comune ad ogni acquisizione: è importante mettere un piede nella porta, conquistare scaffali nei punti vendita. Il mercato inglese serve anche da nave scuola per il salto vero, quello verso l’America.
Ad Alba ci lavorano per tutto il 2016. Negli Stati Uniti ci sono già dagli anni Sessanta. Prima della Nutella avevano portato le caramelline Tic Tac. Perché allora spendere più di 100 milioni per comperare Fannie May, marchio Usa del cioccolato di qualità?
Perché, spiega Giovanni, «porta al nostro interno risorse umane brillanti e una rete produttiva, distributiva e di vendita che ci permetterà di espandere la nostra presenza negli Stati Uniti». Eccola la spiegazione della metafora. La stessa che pochi mesi dopo, nell’ottobre del 2017, motiva la conquista di Ferrara Candy Company, la terza società dolciaria d’oltreAtlantico. Non è più una mossa d’assaggio come le precedenti. È un’operazione da oltre un miliardo. Ed è la prima di mesi frenetici. Perché a gennaio 2018 il merger è addirittura da 2,8 miliardi di dollari ed ha un significato simbolico importante: portare in casa Ferrero la fetta americana del cioccolato Nestlé.Quella che fino a poco tempo prima era, per fatturato, una bambina, comincia a sfidare il gigante in America. Ancora prima che toccasse a Giovanni prendersi sulle spalle il gruppo, le voci della Borsa avevano raccontato una storia diversa: quella di Nestlé che si compera la società di Alba. I Ferrero avevano dovuto smentire. Ma non è mai bello essere dipinti come una società nel mirino dei colossi. Ecco perché quella di Giovanni è anche una rivincita.
Ferrero diventa la terza società dolciaria al mondo. Una fetta troppo grossa per essere mangiata in un sol boccone. Con Alba, in ogni caso, bisogna trattare. La crescita in America serve anche a questo: «Vogliamo raddoppiare il nostro fatturato nei prossimi dieci anni», spiega Giovanni a Forbes.
Oggi i ricavi sono poco superiori ai 12 miliardi di dollari. Mars e Mondelez, i primi due produttori di dolci al mondo fatturano 20 miliardi. Giovanni vuole arrivare presto al loro livello. Comperare i biscotti di Kellogg è servito anche a questo. Oltre che a mettere ben radici in America, serve ad avviare la fase due, l’espansione oltre la cioccolata, nell’ampio oceano degli snack, dei gelati e delle crostatine. Qual è, se c’è, la filosofia che giustifica tanta frenesia? «Dobbiamo – dice Giovanni – cercare il valore soprattutto dove si sta creando: principalmente fuori dall’Europa». Poi, una volta trovato, quel valore va sostenuto dagli investimenti: «Per questo – spiega Giovanni – le società si fondono. Per avere le dimensioni necessarie ad investire». C’è un secondo tabù nella storia dei Ferrero. E, a differenza del primo, il divieto alle acquisizioni, non sembra facile da superare. Per capirlo bisogna leggere con attenzione i comunicati ufficiali sulle operazioni del gruppo.
Anche l’ultimo, l’annuncio dell’acquisto di Kellogg: «Il gruppo Ferrero annuncia un accordo… per il quale acquisirà il business per 1,3 miliardi di dollari in contanti”. Per non dover dire grazie a nessuno, come si dice in piemontese. Niente Borsa, niente scatole cinesi che intervengono nel deal. Quasi con la valigia di banconote. In contanti appunto.
Mai nel listino? Cinque anni fa Giovanni spiegava: «Se un giorno si ponesse il problema come risultato della partnership con una grande società, forse non ci potremmo più permettere il lusso di rifiutare la Borsa». Il numero uno sa che oggi dire di no alla Borsa è un lusso, quasi una snobberia finanziaria. E immagina che prima o poi anche quel tabù cadrà. Ma quando e a quali condizioni vorrebbe poterlo decidere lui.